“La casa nova” di Carlo Goldoni, regia di Piero Maccarinelli, con Stefano Santospago in scena assieme a diplomati e allievi attori dell’Accademia nazionale d’arte drammatica. Al teatro India di Roma
Piccola borghesia zompa e cade
Primo ruolo femminile d’una splendida commedia di Carlo Goldoni, La casa nova, Cecilia è una giovane donna altezzosa, sprezzante, viziata e antipatica come l’allergia di primavera. A metà del terzo ed ultimo atto, la situazione precipita, in casa non c’è più un soldo, suo marito Angiolino è pieno di debiti, i creditori stanno per pignorare ogni cosa, pure le tovaglie, e Cecilia decide di chiedere aiuto allo zio Cristoforo, ricco e molto arrabbiato con la coppia di nipoti dilapidatori di patrimonio. Cos’è una regia? Questo: la sussiegosa gran dama si toglie le scarpe con i tacchi alti e si presenta al cospetto del facoltoso parente con delle umili calzature basse, semplici, dimesse. Siccome l’operazione viene effettuata senza sottolineatura eccessiva, gli spettatori che se accorgono colgono al volo il significato: le scarpe basse suggeriscono un cambiamento di modi, di atteggiamenti, forse persino una presa di coscienza. Chi invece dalla platea non nota il dettaglio, avrà una percezione liminale della trasformazione ma sufficiente a condurlo nella novità della situazione e dei rapporti di forza. L’arroganza sta meglio sui tacchi e quando ne scende tutta la postura del corpo si modifica, la statura si abbassa, il modo di camminare si fa meno imperioso, il portamento più umile, finanche il tono di voce cambia. Gli esseri umani sono le loro scarpe.
La regia dello spettacolo è di Piero Maccarinelli che al teatro India di Roma dirige dieci allievi attori dell’Accademia Nazionale d’arte drammatica affiancati da Stefano Santospago e altri due interpreti già diplomati e nel mestiere, Iacopo Nestori e Mersila Sokoli. La casa nova è una commedia mirabilmente equilibrata che in un certo qual modo può coinvolgere gli aspiranti artisti della scena non solo teatralmente ma anche (forse) come insegnamento di vita perché Goldoni ha affrontato l’argomento del conflitto generazionale non amoroso. Qui non ci sono i vecchi in competizione con i giovani per sposare le fanciulle. Angiolino e Cecilia sono già marito e moglie all’apertura di sipario e stanno traslocando in un appartamento grande, più grande del precedente. I due giovani, figli di piccola borghesia bottegaia, appartengono alla generazione che eredita le sostanze faticosamente accumulate dai padri e le sperpera come se non ci fosse un domani. E infatti per loro un domani non ci sarebbe se non intervenisse lo zio Cristoforo divenuto ricco pel mestiere di salumiere. Il giovane marito ha speso a destra e a manca per soddisfare i capricci della mogliettina e per affrancarsi dalle umili origini della famiglia, darsi un tono da signore, legittimare un’incongruente puzza sotto al naso.
Per le esigenze del racconto teatrale, forse anche per disistima nei confronti della borghesia (alla quale appartiene per nascita), Goldoni la fa più breve dell’ammonizione che si impartisce nelle famiglie di buon lignaggio: la prima generazione accumula, la seconda mantiene, la terza dilapida. La sua commedia non aspetta i nipoti, già i figli sono in decadenza. In questo modo l’autore rende vieppiù chiaro e immediato il dramma degli arricchiti che da troppo poco tempo non vanno più in giro con le pezze al sedere e si possono permettere la cameriera fissa, come diremmo oggi. Si chiama Lucietta, è una deliziosa servetta goldoniana interpretata da Mersila Sokoli con la peperina malizia che ci si aspetta dal personaggio, la prontezza, la brillantezza necessari a far girare tanta parte dell’azione. Angiolino e Cecilia sono rispettivamente Iacopo Nestori e l’allieva attrice Andreea Giuglea, capace di prendersi un ruolo di grande antipatica per rigirarlo credibilmente all’ultimo in una figura pentita e coscienziosa.
Tutti allievi anche gli altri interpreti. Il ruolo di Sgualdo, nell’originale un tappezziere divenuto in questa edizione un geometra, è affidato all’allievo Alessio Del Mastro, che possiede presenza scenica e sa dare al personaggio la ritrosia, il disagio della persona costretta alla pazienza e alla sopportazione di gente spocchiosa. Lorenzo Ciambrelli è il conte Ottavio, amico del cuore di Cecilia, affettato nobilastro mondanetto, stupido ma non fino al punto da mancare la porta della fuga quando le cose si mettono male. La seconda coppia, tipica della tradizione drammaturgica europea, è formata da Gabriele Pizzurro e Irene Giancontieri, nei ruoli rispettivi di Lorenzino e Menichina. Pizzurro è un caso a parte, ha vent’anni, è allievo d’accademia ma sta nel mestiere dall’età di cinque e in questa occasione non sembra avere espresso appieno le sue potenzialità. Giancontieri dona al personaggio movimento, energia e ampiezza di registro interpretativo per la costruzione di un ruolo non facile che sta spesso al centro delle situazioni senza essere una protagonista: deve detestare la cognata Cecilia, questionare col fratello Angelino e amare Lorenzino. Lorenzino è il cugino di Checca che abita al secondo piano del palazzo, dove con luciferina astuzia teatrale Goldoni sposta progressivamente l’azione per confezionare soluzione ed epilogo. L’astuzia sta nel cambiare il luogo mantenendo la stessa giornata (fra inizio e fine della vicenda passano poche ore dal mattino al pomeriggio) di modo da buggerare lo spettatore dandogli senso di movimento e di velocità dell’intreccio. Checca è interpretata da Ilaria Martinelli, attrice di impostazione solida, sicura. Sofia Ferrari fa Rosina, sorella di Checca, Gianluca Scaccia è Fabrizio, Edoardo De Padova lavora in doppio ruolo su Toni e Prosdocimo. Come è tradizione accademica, agli allievi si affianca un prim’attore del teatro italiano, in questo caso Stefano Santospago al quale viene affidato il ruolo dello zio Cristoforo ma soprattutto l’unica parte che Maccarinelli ha voluto mantenere in veneziano a rimarcare evidentemente la distanza generazionale e di costumi, di visione del mondo, con i giovani. Gli altri personaggi parlano in lingua secondo l’adattamento che del copione originale ha realizzato Paolo Malaguti. Su questo aspetto vi è una questione: il veneziano di Goldoni non è lo stesso per tutti i personaggi ma presenta al suo interno delle differenze che indicano la posizione sociale dei diversi parlanti. Sono sfumature che sfuggono a chi non ha conoscenza del veneziano, in particolare settecentesco, e che ovviamente si perdono del tutto in italiano. Allora Malaguti ha costruito almeno due livelli della lingua nazionale, il primo più alto e più pulitino, il secondo per la servitù non artefatto e con abbondanti scivoloni nei venezianismi. La regia però ritiene necessario rinforzare i segni delle differenze di classe, non solo quelli ovvi fra servetta e padroni ma anche, per esempio fra l’aristocratico e i borghesi. È al costumista Gianluca Sbicca che Maccarinelli affida il compito e quanto si perde linguisticamente si ritrova negli abiti, contemporanei naturalmente per facilitare al massimo la decrittazione da parte del pubblico. A questo punto, i volti e i corpi degli attori, i costumi, le loro caratteristiche tecniche ed espressive, la distribuzione delle parti, tutto si armonizza per dare a ciascuno dei giovani artisti le maggiori possibilità di farsi valere. E anche di venire notati, perché i saggi servono a capire cosa sta venendo fuori di nuovo.