“Il grande inganno – La cena di Vermeer” di Maria Letizia Compatangelo, con Felice Della Corte anche regista e Mario Scaletta. Al teatro Marconi di Roma
La regia sta nelle note
La storia è nota e documentata: Han van Meegeren (1889 – 1947) è stato un pittore olandese di scarsa fama ma uno dei falsari più abili del Novecento. Si dedicò in special modo a Vermeer, del quale non copiò delle opere, ma creò di sana pianta dipinti nuovi che fece attribuire al grande fiammingo secentesco. Beffò i migliori critici del suo tempo e la sua Cena in Emmaus fu considerata da Abraham Bredius, storico dell’arte ed eminente conoscitore dell’antica pittura olandese, il più importante quadro di Vermeer.
Su questa storia Maria Letizia Compatangelo ha scritto un dramma a cinque personaggi intitolato Il grande inganno – La cena di Vermeer, in scena al teatro Marconi di Roma con la regia di Felice Della Corte anche interprete. Lo spettacolo racconta l’ultimo periodo della vita di van Meegeren quando alla fine della Seconda guerra mondiale venne accusato di collaborazionismo, imprigionato e processato per avere venduto delle opere di Vermeer ai nazisti, in particolare a Hermann Göring, Ministro dell’Aviazione di Hitler e comandante in capo della Luftwaffe. Ma quei dipinti erano falsi. Il dilemma è il seguente: per non essere giustiziato come collaborazionista, van Meegeren dovette dichiararsi colpevole e dimostrare di essere un falsario visto che non venne creduto. Non solo le sue opere erano effettivamente dei capolavori ma i critici non ammettevano di essere stati buggerati e continuavano a sostenere che i falsi erano autentici.
Le note di presentazione che accompagnano lo spettacolo parlano del protagonista come d’un uomo “alto, dinoccolato, con la chioma fluente”. In effetti, foto d’epoca così lo mostrano. L’attore al quale è affidata la parte, Mario Scaletta, ha la chioma. Ora, non è questione di difendere il naturalismo, questa pestilenza del teatro, ma lo spettacolo sembra confermare la differenza fra quanto sta scritto nelle note e quanto avviene in scena. Si vorrebbe realizzare “un borgesiano gioco di specchi” in cui “si confrontano e si contaminano apparenti verità e vere apparenze” e si intende anche affrontare “il rapporto tra verità e apparenza e tra identità e verità dell’artista”. Vasto progetto.
Il dialogo fra il pittore prigioniero e l’ufficiale olandese che lo interroga, Joop Piller, non sale alle vette delle questioni estetiche e della natura dell’opera d’arte ma resta uno scambio fra un falsario un po’ isterico e un militare. I due parlano di questioni tecniche su come ottenere i colori e le craquelures (il reticolo di piccole crepe dovuto all’invecchiamento dei dipinti a olio) che rendono il falso indistinguibile da un originale secentesco. Su questi trucchi, il dramma offre buone informazioni. Il vasto progetto invece sta in proposizioni varie e diverse messe qua e là senza dare profondità ai personaggi, li descrive come due esteti, l’uno artista, l’altro appassionato d’arte, ma non li anima. Sono parole prive di vita. I due attori, Mario Scaletta e Felice Della Corte (nel ruolo dell’ufficiale), non sfruttano interpretativamente quanto del testo potrebbe essere tirato fuori per dare forza alle rispettive parti. Si muovono, gesticolano, parlano ma i personaggi restano fermi. Una lettura al leggio, anche sotto l’aspetto registico, non avrebbe dato risultati molto diversi. In scena assieme ai protagonisti Tiziana Sensi, Caterina Gramaglia e Paolo Gasparini.