“Semo o nun semo” uno spettacolo di Nicola Piovani, con Massimo Wertmüller, Sara Fois, Pino Ingrosso, Donatella Pandimiglio, Carlotta Proietti. Al teatro Olimpico di Roma
Roma fa la stupida stasera
Qui comincia l’avventura d’una Roma imperitura messa in scena da Piovani su canzoni di romani. Ecch’il Massimo Wertmüller che racconta come un thriller delle vite di stornelli, serenate e saltarelli. Non c’è nulla da ruga’, semo tutti un po’ rega’, se lo semo o nun lo semo, noi er core ce l’avemo. Semo o nun semo s’intitola il fortunato spettacolo di Nicola Piovani che è tornato in scena a vent’anni dal debutto e dopo stagioni di successi.
Roma come piace ai romani; Roma come i forestieri la amano senza capirla; Roma della vita e della morte che sono ‘na vitaccia e li mortacci, er zol d’istate e la neve d’inverno; Roma sparita da qualche parte, ricomparsa nella platea esaurita del teatro Olimpico dove il pubblico batte le mani a tempo, canta e si commuove ancora, come novant’anni fa, a una canzone senza titolo: “Tanto pe’ cantà, / perché me sento ‘n friccico ner còre…”. Nello spettacolo ci sono cose preziose quanto Petrolini e i fiori di lillà seppur meno note. È da una canzone di Romolo Balzani che viene il titolo, Semo o nun semo: “Venite giù alla festa de noantri / e poi vedete che sapemo fa. / Ce so le tamburelle, chitarre e mandolini, / li mejo concertini che fanno innamorà…”
Qui per la festa che Piovani organizza in scena ce so il contrabbasso, chitarra, fisarmonica e pure il flauto, il mandolino, il violoncello dell’Ensemble Aracoeli. E i tamburelli. Proiettata sul fondo scena l’immagine di un nasone, che a Napoli è il soprannome di Ferdinando IV, ma dentro le mura aureliane così si chiama la fontanella romana. “Certo, a confronto con la canzone napoletana – dice il maestro Piovani a prologo dello spettacolo – qualsiasi civiltà musicale ci fa, come si dice da noi, una figura cacina. Eppure anche Roma, nel suo piccolo, può offrirci qualche bella occasione di canto. Diciamo che, se a Napoli hanno abbastanza canzoni per cantare 365 serate l’anno, noi almeno una serata ce la possiamo permettere”. Quando tutt’e cinque – Sara Fois, Pino Ingrosso, Donatella Pandimiglio, Carlotta Proietti e Massimo Wertmüller – intonano Roma nun fa la stupida stasera, dalla commedia musicale Rugantino di Garinei e Giovannini, la cantava sempre Lando Fiorini al Puff, il locale di cabaret a Trastevere in via Giggi Zanazzo (Zanazzo poeta romanesco, Fiorini cantante romanesco), insomma quando i cinque attaccano “Roma nun fa’ la stupida stasera / Damme ‘na mano a faje di’ de si’ / Sceji tutte le stelle piu’ brillarelle / Che puoi e un friccico de luna / Tutta pe’ noi”, il pubblico se mette anche lui a canta’ perché a Roma c’è sempre ‘n friccico ner coro.
Su testi scritti da Pietro Piovani, Massimo Wertmüller racconta la Città Eterna che in quanto eterna ha un rapporto con la morte che è la morte sua: qua sotto al Campidoglio se more de voglia, se more da ride, se more de pizzichi e chi non more se rivede. Il cognome intero dell’attore è von Elgg Spanol von Braueich, discendente d’ una famiglia di qualche castello medievale a mezza strada fra il lago di Zurigo e quello di Costanza. Dice uno stornello in endecasillabi (a Napoli lo stornello non lo tengono): “Misi tant’anni a fabbricà un castello / per essere chiamato castellano / doppo che l’ebbi fabbricato e bello / le chiavi me levorno da le mano”. Qui sono tutti stranieri e Wertmüller è proprio di Roma, come San Pietro che veniva da Betsaida. L’artista parla in romano, non in romanaccio, e pronuncia l’invocazione magica d’ogni quirite, “quell’antica formula – dice – che chiama a raccolta tutti i suoi antenati”, da attore di gran mestiere, sornione, ironico, con quel ritmo, quell’attimo di sospensione, e quando la platea ha capito tutto, sta per rubargli il tempo e bruciare la battuta, lui arriva un secondo prima: “Ma li mortacci!”. Se la prende col tenore Pino Ingrosso che con i suoi virtuosismi gli vuole fregare il favore del pubblico e va a lamentarsi dal maestro Piovani che sta in quinta perché a Roma per risolvere una questione o si parla col Papa o si parla col coltello. Lo conferma l’attore stesso quando ricorda del marchese Gastone Monaldi che aveva la passione per il teatro e prediligeva la parte di er più, di bullo. Anche nella vita: si contano nel suo curriculum otto duelli e diciassette cicatrici. Nella compagnia del marchese lavorava una cantante e attrice di nome Pina Piovani, zia del premio Oscar. In città ci si conosce un po’ tutti, si è sempre parenti di qualcuno, Roma è una metropoli di provincia. Insomma la zia ha tramandato al nipote una bella canzone, ‘Na serenata a Ponte: “Ma si c’avete er core che v′assomija ar viso / Stella de’ paradiso / Nun me negate, nun me negate / Un friccico d′amore, ah sì, d’amore”. È tutt’un friccico questo spettacolo.
Affaccete Nunziata, Nina si voi dormite, La canzone a Nina: i capitolini quando hanno da cantare le femmine, le chiamano tutte con lo stesso giro di nomi, Nunziata, Nunziatella, Nunziatona, Nunziatina oppure Nannarella, Nannì, Nannina, Nina. Barcarolo romano: “Più di un mese è passato / che una sera glie dissi: “Niné / quest’amore oramai è tramontato”. Roma forestiera: “Nannarè / Perché, perché te sei ‘nnamorata / De ‘sta musica ammerigana? / Ma perché te sè scordata che sè romana / E li stornelli nun canti più?”. La nostalgia per la Roma che fu è passione dei romani d’ogni generazione. Ma Roma come la vita è sempre la stessa, diversa e uguale a ogni decennio, la città d’oggi (invero un po’ troppo malandata e maltrattata) e quella di Aldo Fabrizi, bonomia, amore e trippa più la delicatezza della malinconia grandiosa e sottile del Tevere al tramonto che s’ha da stornare con la giocosa Lulù in ottonari: “Sono pazzo già da un pezzo / già da un pezzo sono pazzo / se mi spregi io m’ammazzo / se m’ammazzo morirò.”
Nel 1891 al festival di San Giovanni, una specie di Sanremo ante litteram, un artista non ancora venticinquenne destinato alla fama vinse il primo concorso della canzone romana con Le streghe. È l’inizio dello spettacolo, non l’epilogo ma non importa, questa città viene dall’eternità dove nulla comincia e nulla finisce. Il giovane artista si chiamava Leopoldo Fregoli. Si trasformava in continuazione ma era sempre se stesso. Come Roma.