“Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo, regia di Vincenzo Salemme anche interprete assieme ad Antonella Cioli. Al Sistina di Roma
Il teatro è sempre teatro popolare
Vincenzo Salemme è un capocomico all’antica italiana, di quelli che prendevano un testo, per quanto importante e celebrato potesse essere, e se lo risistemavano addosso come una giacca. Devoto a Eduardo epperò libero, il regista e attore napoletano fa Natale in casa Cupiello come sta scritto ma ci mette cose sue, battute, trovate, scherzi, e il pubblico del Sistina di Roma ride, acclama, applaude a scena aperta, qualcuno anticipa il dialogo e viene spiazzato perché il protagonista frena, accelera, aggiunge. E il ruolo per eccellenza di Eduardo, Luca Cupiello, diventa di Salemme. Però si intuisce: dentro l’attore ci sta pure il Maestro che addestrò un giovane entrato nel 1977 in compagnia. Adesso quel giovane esaurisce i 1537 posti del teatro. Hanno dovuto predisporre una pomeridiana del sabato per far fronte alle richieste.
A voler proprio criticare qualcosa di questo allestimento di grande e meritato successo, si potrebbe sostenere che Salemme manca della malinconia di Eduardo, ossia di quel pensiero sempre sottacente che ‘a vita è n’affacciata ‘e fenesta e che poco si può fare, un presepe forse ma un pranzo in famiglia meglio di no. Con questi figli non c’è rimedio, non sono proprietà di chi li mette al mondo e nemmeno di Dio, appartengono a se stessi. E la moglie? La moglie sta là, fa quello che può, cerca di mettere pace, di difendere la casa, di impedire la tragedia. Natale in casa Cupiello è il dramma dell’impotenza.
Forse però le cose riguardo la malinconia non stanno proprio così: quella di Eduardo è di un vecchio, anche a 31 anni quando mise in scena il dramma per la prima volta assieme ai fratelli Titina e Peppino; un vecchio che ha visto la guerra, la povertà, la fame, la vita difficile. La malinconia di Salemme è d’un bambino che sa di essere diventato adulto ma a teatro può giocare ancora, può tendere la mano e prendere la luna, troppo lontana per i grandi.
Salemme agisce a suo modo e fa benissimo, conferma, se ve ne fosse necessità, che le commedie di Eduardo, e in particolare questa, la più famosa, la più vista, sono universali, le può fare chiunque sia bravo, meglio se molto bravo, ma non necessariamente “eduardoide”. Allora il capocomico mette tutta la sua arte, la velocità, il guizzo, il tono, il tempo, l’effetto, il trucco: ridete, spettatori, ridete, qualche cosa resterà. Resterà dentro di voi una strana nostalgia di quando eravate ragazzini e il 24 dicembre alla televisione davano invariabilmente Natale in casa Cupiello. Perché Eduardo non sta solo acquattato dentro lo spettacolo di Salemme che dice “io lo faccio così”, dentro il suo Lucariello, sta anche nella mente di chi guarda, il quale lo cerca e lo trova come un’eco, una risonanza in questa maniera rapida, quasi indiavolata, senza pause e senza silenzi, di rappresentarlo.
Certo che per non dimenticare Eduardo e per farlo dimenticando Eduardo, bisogna disporre d’un gruppo di attori capace. Se il protagonista ha davanti a sé un monumento del teatro, Antonella Cioli nel ruolo di Concetta ha una statua equestre, Pupella Maggio. Non ciabatta rumorosamente con le pantofole ricavate da un vecchio paio di scarpe del marito, come faceva la signora Maggio nella prima scena, quando attraversava la camera da letto buia e andava con calma ad aprire le imposte, prendendo il suo tempo prima di dire la famosa battuta d’esordio: “Lucarie’, Lucarie’,…scetate songh’e’ nnove! Lucarie’…”. Cioli non si cura del fantasma di Pupella, né la imita né la respinge, interpreta Concetta come la sente, una piccolo-borghese rassegnata ma non spazientita, che sta ferma davanti al marito con sopportazione ma senza irritazione e lo tiene all’oscuro di tutto quello che succede in casa. Lei sente nel cuore la disgrazia prossima, le entra nelle ossa, ma deve simulare la concordia, l’armonia familiare. In fondo si tratterebbe solo d’una storia di tradimento: la figlia Ninuccia ha preso una sbandata per un bel giovane, Vittorio Elia, amico di suo fratello Tommasino, detto Nennillo. La ragazza però si è sposata bene con Nicola Percuoco, un agiato industriale, fabbricante di bottoni. L’incapricciamento della ragazza è un guaio serio, rischia di mandare a scatafascio tutta la famiglia. Non è una banale storia di corna, è una catastrofe perché non si sta in una pièce di Feydeau ma in un dramma di Eduardo, in una tragedia mascherata da commedia.
A fare la figlia Ninuccia c’è Fernanda Pinto. Lina Sastri per la sua interpretazione nell’edizione televisiva del 1977 dava al personaggio un vento di furia, una specie di ciclone devastatore. La Ninuccia di Pinto è invece caratterizzata da una testardaggine femminile più pacata ma altrettanto irremovibile e rovinosa. Molto efficace. Forse il ruolo impostato più similmente a quello televisivo è Nennillo, restituito da Antonio Guerriero un po’ come lo faceva Luca De Filippo, un fannullone ladruncolo, ostinato nella sua accidia ma tutto sommato bravo figlio, uno di quelli con solo due stazioni, eretta e sdraiata, perché sedersi è una fatica che non vale la pena. Naturalmente sono di gran mestiere anche gli altri, il capocomico ha occhio per gli attori che stanno bene in scena e in parte: fra gli altri Franco Pinelli nel ruolo di uno zio Pasquale ridicoloso; Nicola è affidato a Vincenzo Borrino, Sergio D’Auria fa Vittorio e molto solido è anche il resto della compagnia. Un successo pieno, indiscutibile, applausi finali forti e reiterati, sei chiamate in proscenio. Il teatro è sempre teatro popolare, altrimenti è vanità.