“La rosa non ci ama” di Roberto Russo, regia di Gianni De Feo anche interprete assieme a Cloris Brosca. Al teatro Lo Spazio di Roma
Fior d’amore di spine muore
Ancora in Irpinia se ne parla, come se il fattaccio fosse avvenuto non proprio ieri ma comunque da poco tempo, di Carlo Gesualdo principe di Venosa che nella notte fra il 16 e il 17 ottobre 1590 uccise assieme a dei sicari da lui assoldati la moglie donna Maria d’Avalos e l’amante di lei, don Fabrizio Carafa duca d’Andria. In verità l’ammazzamento avvenne a Napoli al palazzo de Sangro, ma subito dopo il principe andò in esilio nell’omonima cittadina irpina, Gesualdo (il toponimo non proviene dal principe, risale al periodo longobardo), dove morì nel 1613. Di conseguenza i nativi si sentono coinvolti, anche perché il personaggio era di notevole levatura culturale, di carattere singolare ed ebbe crisi di pentimento, assoldò adolescenti dei dintorni per farsi frustare in segno di espiazione e scacciare i demoni del rimorso che lo perseguitavano.
In conseguenza del delitto ci fu ovviamente un processo che però si chiuse il giorno dopo l’apertura perché per la giurisprudenza dell’epoca il marito aveva pieno diritto di fare fuori la moglie fedifraga e l’amante. Non si ha da pensare che si tratta di una barbara usanza presso antichi progenitori: in Italia il delitto d’onore è stato abrogato appena quarant’anni fa, esattamente il 5 agosto 1981.
Questo fatto di sangue che avvenne nel mondo della più alta nobiltà e che a suo tempo appassionò tutta Napoli, è oggetto di uno spettacolo scritto da Roberto Russo, andato in scena al teatro Lo Spazio di Roma, intitolato La rosa non ci ama (sottotitolo Carlo Gesualdo Vs Maria d’Avalos), regia di Gianni De Feo anche interprete assieme a un’attrice assai apprezzabile, Cloris Brosca.
Il testo è costruito come una tenzone verbale fra il marito e la moglie, colti dopo la tragedia, dopo la vita. I due sono ormai fantasmi inquieti, costretti ogni notte a rievocare il passato, i sospetti, il tradimento, il delitto. Raccontano un loro amore mortale perché l’autore li ha pensati romanticamente, passione, furore, dannazione di una bellissima donna quale fu Maria e di un artista del valore di Carlo, musicista e compositore non dimenticato di raccolte di madrigali e di musica religiosa.
Il dramma mette in scena altri personaggi oltre ai due principali: un gesuita perfido e intrigante; lo zio di Carlo, Giulio Gesualdo; Prevetiello, consigliere di Carlo; il magistrato che istruisce il processo; le due cameriere Laura Scala e Silvia Albana. Tutti interpretati dai due attori, in un miscuglio di italiano, latino, spagnolo e di napoletano antico restituito magnificamente, con gran piglio popolaresco da Cloris Brosca. Due testi di Torquato Tasso che non compaiono fra quelli messi in musica da Carlo Gesualdo, sono stati rielaborati per lo spettacolo con partitura originale di Alessandro Panatteri e cantati dal vivo nello stile madrigalesco. Nella prima scena una donna vestita di stracci e seduta per terra armeggia con un cubo di Rubik che rappresenta “la gamma cromatica delle anime” di Maria e Carlo, spiega una nota allo spettacolo. Tuttavia il cubo può anche essere inteso come la complessità della vita e la ricerca di una sua ricomposizione ordinata, di una soluzione armonica che ristabilisca una condizione originaria perduta.
Il testo e la messinscena sono quindi articolati, vivi, mossi, ben fatti. Uno spettacolo estetico, in certi momenti estetizzante però, interpretato dai due attori con variazioni recitative tecnicamente non facili e contrassegnate dalla diversità dei personaggi da restituire. Brosca mostra molta sicurezza, molta padronanza nei cambi di registro interpretativo e passa con agilità dalla popolana alla gran dama. Più difficile è capire le scelte di Gianni De Feo perché se in tutte le parti secondarie anche lui è duttile, efficace, preciso, per il ruolo protagonista di Carlo Gesualdo infronzola di maniere la sua prova, di estetismi, sofisticherie. Quando maneggia la rosa citata dal titolo, simbolo dell’amore, viene da ricordare un aneddoto degli anni Cinquanta raccontato da Ornella Vanoni che riguarda Giorgio Strehler e Sarah Ferrati: il regista aveva allestito una commedia borghese (quasi certamente La moglie ideale di Marco Praga) con la Ferrati protagonista. La grande attrice a un certo momento s’era messa in testa di prendere una rosa e di sfogliarla. Strehler le ingiungeva di non farlo ma lei imperterrita tutte le sere in scena continuò a gingillarsi con il fiore e Strehler a schiumare di rabbia dietro le quinte. De Feo non sfoglia la rosa però Strehler probabilmente gli avrebbe chiesto di lasciarla nel titolo (o in un vaso) perché quella rosa da simbolo dell’amore diventa riassunto d’una manieratezza. “Una rosa è senza perché”, recita l’inizio di un famoso distico di Angelus Silesius, però le sue spine hanno sempre un perché.