“Processo Galileo” di Angela Demattè e Fabrizio Sinisi, regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici. Con Luca Lazzareschi e Milvia Marigliano. Al Vascello di Roma
La scienza del teatro e il teatro della scienza
Processo Galileo è uno spettacolo singolare sia per lo stile della messinscena che per la sua genesi. Due registi, Andrea De Rosa e Carmelo Rifici, stavano lavorando ciascuno per proprio conto sul rapporto fra teatro e scienza. Le idee sovente girano nell’aria, stanno appollaiate da qualche parte, sul ramo d’un albero per esempio, e se qualcuno che potrebbe realizzarle ci passa sotto, si lasciano cadere dentro la sua testa. De Rosa e Rifici, registi di stile diverso, si sono accorti della coincidenza e hanno deciso di collaborare alla messinscena di un testo ispirato alla vita e all’opera di Galileo Galilei, scritto a quattro mani da Angela Demattè e Fabrizio Sinisi affiancati da una dramaturg, Simona Gonella. Un processo abbastanza complicato che ha prodotto uno spettacolo complesso composto di tre parti – passato, presente e futuro – in scena al teatro Vascello di Roma. Protagonisti di solidissima affidabilità Luca Lazzareschi e Milvia Marigliano, i quali nel primo terzo della rappresentazione (il processo del 1633 a Galileo) interpretano rispettivamente il ruolo del titolo e l’Inquisitore Vincenzo Maculani. La Marigliano non è en travesti, non ne ha bisogno, è semplicemente brava nel ruolo. Il dialogo si svolge sulla base degli atti processuali e delle lettere scritte dallo scienziato e, sinteticamente, esplora il rapporto fra scienza e potere. E questo è il passato. Il presente racconta di una giovane intellettuale che deve scrivere un articolo sul rapporto fra scienza e società. Intrattiene una conversazione con uno scienziato (che potrebbe essere lo stesso Galileo) e soprattutto con la propria madre che sta lavorando nell’orto e incarna la saggezza popolare, la tradizione, l’essere umano nel suo percorso millenario. Questo è il tempo del dubbio, la figlia intellettuale subisce la dipartita della genitrice, la natura contiene la morte, condizione ancestrale inaccettabile all’uomo della tecnologia. “Un solo bene, la scienza; un solo male l’ignoranza”, dice lo scienziato e chiude in questa unica frase l’intero significato dell’esistenza ormai svuotata dell’anima che poca saggezza ottiene dalla scienza, ancor meno dalla tecnologia che serve a risolvere problemi pratici e ottimizzare procedure, tutto invece dall’atto stesso di essere. Il terzo movimento, il futuro, contiene una lunga sequenza di scoperte scientifiche e di risultati tecnologici: il big bang, i buchi neri, le galassie, la materia oscura, gli elettroni, i fotoni, la particella di Dio, il cervello, la mente, l’intelligenza artificiale, la danza dei quanti, la schiuma quantica, il brodo primordiale. In verità del brodo primordiale, già si occupava Riccardo Pazzaglia nel 1985 in tv a Quelli della notte di Renzo Arbore. Ma questo è uno spettacolo molto pensieroso in cui il cannocchiale di Galileo rappresenta un punto di partenza, il momento in cui l’uomo, in particolare la civiltà occidentale, imbocca una strada in cui una società incomincia a confondere la propria evoluzione con il progresso tecno-scientifico e ad avanzare verso un destino inquietante.
Tutto questo naturalmente spinge lo spettatore alla riflessione sulle magnifiche sorti e progressive, o sul fosco fato e funesto, e viene da pensare che lo spettacolo prende molto sul serio un’umanità ancora incapace d’un rimedio definitivo non solo per il cancro, ma persino per la banale influenza che solo in Italia uccide circa ottomila persone l’anno. Si può vedere la specie umana come nello spettacolo, una Pandora che apre il vaso dell’energia atomica, oppure come una razza di povera gente appena uscita dalle caverne che ancora muore di fame, insozza un pianeta con il fumo degli idrocarburi ma si esalta quando va sulla Luna, ossia attraversa un vicolo del sistema solare, il quale è esso stesso un paesino di provincia. “Se non tengo presente l’universo, perdo il senso delle proporzioni”, diceva Italo Calvino.
Lo spettacolo pone in modo diretto la questione del divenire umano, indubbiamente centrale per noi ma quasi certamente non altrettanto fondamentale per il cosmo. Gli autori e il regista si privano quindi di una storia con un intreccio e soprattutto con una metafora, figura retorica costitutiva dell’arte scenica. Riescono però con un po’ di scienza del teatro a fare un teatro della scienza, a costruire un’azione e mantenere vivo l’interesse del pubblico. Essenziale l’apporto di Lazzareschi e Marigliano che rendono vivo un testo irto di passaggi problematici dal punto di vista della tensione drammatica. D’altronde Luca Ronconi ha mostrato che si può fare teatro persino con saggi di economia, carteggi di intellettuali comunisti e perfino un dizionario di bioetica (non sempre con esiti felici). In scena anche Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi, Isacco Venturini. Daniele Spanò dà un gran mano allo spettacolo con una scenografia, o per meglio dire un’installazione che si presenta come una via di mezzo fra un laboratorio scientifico e un museo della tecnologia.