“Falstaff a Windsor”, liberamente tratto da “Le allegre comari di Windsor”, adattamento e regia di Ugo Chiti. Con, fra gli altri, Alessandro Benvenuti. Al Quirino di Roma
Dall’oro al piombo
Tutto vestito di bianco, anche i calzini e le scarpe, la folta capigliatura e la grande barba candide come neve, ad Alessandro Benvenuti basterebbe un po’ di rosso per fare Babbo Natale. Invece interpreta Sir John Falstaff che è un beone da taverna, un mangione da osteria e ruttatore appassionato, un grasso fanfarone cascamorto, un uomo ventrale insomma, con una trippa prominente come un balcone. Un codardo per soprammercato, che nella prima parte dell’Enrico IV di Shakespeare si butta a terra durante la battaglia e si finge morto. Nello stesso dramma, quando Falstaff chiede ad Hal che ore sono, una domanda innocua, questi gli risponde: “Sei così grasso d’ingegno a forza di bere vino vecchio, di sbottonarti dopo cena, di dormire sulle panche dopo mezzodì, che hai dimenticato di domandare davvero quello che davvero vuoi sapere. Che diavolo c’entri tu con l’ora che è? A meno che le ore non siano bicchieri di vino, i minuti capponi, gli orologi lingue di ruffiane, i quadranti insegne di bordelli, e il sole benedetto una bellezza calorosa vestita di taffettà rossa fiammante non vedo proprio perché dovresti farmi una domanda così inutile come chiedere l’ora”. (Enrico IV-1, atto I, scena 2).
Benvenuti porta al Quirino di Roma questo enorme, meraviglioso personaggio shakespeariano, oggetto di analisi letterarie, teatrali, storiche, antropologiche, psicoanalitiche, che appare in tre opere del Bardo: oltre all’Enrico IV (prima e seconda parte), Enrico VI e Le allegre comari di Windsor. Di quest’ultima commedia Ugo Chiti, anche regista, ha liberamente tratto lo spettacolo che infatti si intitola Falstaff a Windsor. Bisogna rassegnarsi: la mania di cincischiare i capolavori di Shakespeare, per quanto la storia resti sostanzialmente la stessa, non avrà fine e troverà sempre giustificazioni varie, il numero dei personaggi quindi la quantità delle scene quindi nientepopodimeno che cinque atti quindi la lunghezza della rappresentazione quindi i costi di produzione. Tutte faccenduole che si risolvono con un po’ di tagli sartoriali e di buon senso pratico teatrale. Invece no, bisogna cambiare persino il titolo, come se fosse un’opera nuova. Vero che ai suoi tempi, quando ancora non c’era la Siae per il deposito delle opere, Shakespeare prendeva e rimaneggiava roba di altri autori, in ispecie italiani, tanto che praticamente non esiste un suo soggetto originale. Però il Bardo era un genio inimitabile, stravolgeva e trasformava in oro il piombo degli altri. Adesso gli altri mutano in piombo il suo oro.
Tuttavia lo spettatore che volesse un Falstaff originale, un Falstaff falstaffiano, non lo troverebbe qui e nemmeno nell’originale shakespeariano. Molti studiosi si chiedono se l’eroe (o meglio l’antieroe) dell’Enrico IV è lo stesso di quello de Le allegre comari di Windsor. Il grande critico letterario americano Harold Bloom sosteneva nel suo saggio del 1998 Shakespeare, l’invenzione dell’umano che questo secondo Falstaff è “un impostore d’operetta”, “un anonimo signore travestito da Falstaff”, uno “pseudo Falstaff” insomma. E in effetti il personaggio ha perso la sua verve e pare un babbeo caduto in una farsa nella quale si fa beffare crudelmente. Allora siccome persino Shakespeare si gingilla con il suo personaggio, perché non lo potrebbe fare Chiti? Perché nell’operazione di Chiti non c’è nulla di nuovo, non c’è una visione inedita, personale di Falstaff e anche la malinconia che viene fuori dall’originale qui appare come lentezza, fiacchezza. Lo ha capito prima ancora che si alzasse il sipario un’abbonata del Quirino di una certa età ed esperienza di sala: “Mi sa che stasera è moscia”.
Non tutti i ruoli s’attagliano a tutti gli interpreti, anche bravi, e questa a teatro è una banalità esattamente come appare ordinaria la prova di Benvenuti. L’attore non sembra avere una sua idea di Falstaff, dà l’impressione di non sentire il personaggio, sta nel ruolo in grazia del mestiere e dice la battuta scolasticamente, toscaneggiando un po’. Non molto di più si può dire delle interpreti di Miss Ford e Miss Page, le signore corteggiate da Falstaff che organizzano la beffa ai suoi danni dopo che lui ha inviato loro due lettere d’amore identiche. Neanche il loro nome si conosce siccome è invalsa, ormai da anni purtroppo, un’altra abitudine (oltre quella di manipolare capolavori), ossia di non mettere in locandina la distribuzione, come si chiama in gergo, quale attore fa quale personaggio. Le interpreti di Miss Ford e Miss Page stanno fra questi nomi: Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Paolo Cioni, Paolo Ciotti, Elisa Proietti. Così vale per tutti gli altri attori, e anche il servo di Falstaff, Pistola, restituito senza mordente, sta fra loro. La locandina invece indica che lo scenografo è Sergio Mariotti, il quale realizza una scena sintetica fino al vuoto: quinte laterali, un telo bianco per fondoscena e tre praticabili posati sul palco. Ma una scenografia come sintesi del vuoto è un giudizio eccessivamente severo per la riduzione in due tempi di Ugo Chiti dei cinque atti di Shakespeare.