“Clitennestra” da “La casa dei nomi” di Colm Tóibín, adattamento e regia di Roberto Andò. Con, fra gli altri, Isabella Ragonese e Ivan Alovisio. All’Argentina di Roma
Lo psicologismo senz’anima
Per raccontare la storia di Clitennestra, Agamennone, Ifigenia, Achille, Elettra, Egisto, Cassandra, non c’era bisogno di rivolgersi a uno scrittore irlandese contemporaneo, Colm Tóibín, che ha scritto un libro di narrativa, La casa dei nomi. Nel quale secondo l’editore italiano “fa rivivere le figure classiche della casata di Atreo e, intaccando la loro mitica intangibilità, le rende personaggi di carne e sangue…”. Ora, non sarebbe gentile ridacchiare sulla buffa convinzione della mitica intangibilità di questi personaggi della tragedia greca, basta semplicemente suggerire che probabilmente i due tragediografi che se ne sono occupati, Eschilo ed Euripide, erano bravini – così ancora oggi si dice in città – e hanno provveduto già venticinque secoli fa a rendere i loro eroi carne e sangue senza la necessità d’avvalersi degli interiori tramestii psicologistici dell’autore irlandese.
Tuttavia Roberto Andò, regista di Clitennestra (al teatro Argentina di Roma) ha sentito il desiderio di adattare e mettere in scena lo scritto di Tóibín in luogo degli originali, l’Orestea di Eschilo, unica trilogia rimastaci dei tempi antichi, e Ifigenia in Aulide di Euripide, capolavori di questi due vecchi signori noti esperti di figure classiche da cui l’irlandese trae la vicenda di Clitennestra ingannata dal marito Agamennone. La loro figlia Ifigenia dovrebbe sposarsi con Achille ma il padre intende farla ammazzare in sacrificio ad Artemide per propiziarsi i venti favorevoli a salpare per la guerra. Seguirà la vendetta di Clitennestra che chiederà al suo amante Egisto di uccidere Agamennone. Poi naturalmente l’altra figlia Elettra e il figlio maschio Oreste vorranno a loro volta vendicarsi sulla madre. Insomma un po’ di sangue e carne negli originali c’è. Però Tóibín spiega, e il programma di sala riporta (ritenendo quindi la proposizione meritevole di essere diffusa), che questa vicenda “ci perseguita per il modo in cui dimostra che la violenza genera altra violenza”, Qui bisogna stare attenti perché questa constatazione rappresenta una vetta dell’analisi letteraria e va fatta incidere a lettere d’oro sul camino della sala da pranzo come suggerisce Arpagone nell’Avaro di Molière per un’altra riflessione fondamentale e cioè che si mangia per vivere e non si vive per mangiare.
Lo spettacolo colma una mancanza seria dei due autori greci che ignorano il punto di vista della mamma, sempre disonorata da uno stigma ingiusto di belva. E non si dica poi che solo gli italiani sono mammoni. Il ruolo è affidato a Isabella Ragonese che quindi è la protagonista e deve dire ben oltre la metà delle battute complessive. Ragonese è una buona attrice, tecnicamente preparata, teatralmente esperta, ma qui è fredda come l’intero allestimento che si mostra ieratico, distante, in contraddizione peraltro con gli intenti psicologistici. Varie scelte registiche ricordano la messinscena di Ferito a morte che Andò propose nel gennaio dell’anno scorso su questo stesso palcoscenico. L’errore dei cronisti teatrali è sovente di recensire non lo spettacolo che hanno davanti agli occhi ma quello precedente di un artista (oppure quello che vorrebbero vedere). Però il difetto dei registi a volte è di rifare uno spettacolo ma con un altro testo. Come nell’adattamento teatrale del romanzo di La Capria, anche qui ci sono scenograficamente due livelli, con un piano sopraelevato sul quale si svolgono quei momenti dell’azione da sottolineare bene bene, didascalicamente (per esempio l’omicidio di Agamennone). Ora, c’è una differenza fra uno stile di regia e una maniera. La maniera è la tecnica senza l’idea.
Il testo non aiuta, è appesantito da una poeticità forzata, dall’elevatezza a tutti i costi: l’impressione è che Tóibín s’affanni ad essere all’altezza dell’argomento, contratto come un saltatore con l’asta che tenti di zompare sulla cima del monte Elicona dove dimorano le Muse. Le luci al neon volute da Andò aumentano la sensazione che dal palazzo di Micene non si è saliti ma scesi nel garage di un condominio di Cinecittà Est senza che tale sensazione sia moderna o almeno contribuisca alla freddezza complessiva dell’allestimento in quanto scelta estetica e poetica e non grigiore.
Lavorano meglio le attrici degli attori: la Ragonese, seppure ingabbiata in una regia che la ridimensiona a una prova tecnica professionale; Arianna Becheroni dona a Ifigenia una drammaticità genuina; Anita Serafini riesce a dare una vibrazione alla sua Elettra, al contrario di Denis Fasolo che è un Achille senza Achille. L’Agamennone di Ivan Alovisio è di mestiere e dell’Egisto di Federico Lima Roque si può dire che sta in scena. Come d’altronde il coro di cinque elementi che sembra muoversi per la semplice ragione che su un palco qualcosa bisogna pur fare. Lavorano inoltre Cristina Parku (Cassandra) e Katia Gargano (la donna anziana del popolo). Le coreografie di Luna Cenere offrono dei ballettini che interrompono quel poco di azione che c’è. Tóibín e Andò hanno cacciato gli dèi da questa antica storia greca e lo spettacolo effettivamente non ha nulla di divino, però contiene pure poca anima.