“I giganti della montagna” di Luigi Pirandello, regia di Claudio Boccaccini. Con, fra gli altri, Felice Della Corte e Silvia Brogi. Al teatro Marconi di Roma
I nani al potere
Allestire I giganti della montagna è uno sforzo produttivo notevole e un rischio serio. Motivi sufficienti per encomiare una compagnia che mette in scena l’ultimo e incompiuto dramma di Luigi Pirandello, scomparso nel 1936 prima di poter scrivere il terz’atto. Più che ai privati, si tratta d’un testo adatto agli stabili pubblici, i quali avrebbero da dedicarsi al servizio culturale e non al commercio teatrale (come troppo spesso fanno). Invece l’ultima volta che il dramma s’è visto a Roma, nel 2019 in un allestimento diretto da Gabriele Lavia, è stato rappresentato su un palcoscenico privato, l’Eliseo (quando il teatro di via Nazionale non aveva subito l’onta della chiusura). Adesso, con regia di Claudio Boccaccini, I giganti della montagna stanno al Marconi.
Il motivo che ha indotto Boccaccini a infilarsi in una sì spropositata impresa si vede subito dall’assenza di scenografie: il regista ha diminuito quanto più possibile il rischio produttivo e si è affidato agli attori per trasmettere il significato del dramma pirandelliano. In sintesi: i giganti sono il Potere e le Istituzioni che formano una gigantesca banda di delinquenti analfabeti come i fascisti degli anni Trenta, i quali odiano la cultura, il teatro e la poesia rappresentati dalla “Compagnia della Contessa”. I nani al potere. Il tema è attuale. Boccaccini ha ridotto i personaggi da quindici a dodici (non ci sono Spizzi, il sacerdote e Lumachi), ha dato un doppio ruolo a Titti Cerrone che fa Mara-Mara e Maddalena, ha affidato il primo ruolo femminile di Ilse (la Contessa) a Silvia Brogi mentre Cotrone è interpretato da Felice Della Corte. Poi ha puntato sul collettivo per creare uno spettacolo che avesse unità stilistica e con le luci ha segnato esteticamente la messinscena. La temerarietà dell’operazione è completata da una tenitura in cartellone di sei settimane, mitigata solo dalle giornate di rappresentazione che escludono il martedì e il mercoledì.
Questo è un dramma astruso, scuro e oscuro, anche presuntuoso nella sua caratteristica di tardiva presa di coscienza culturale e politica d’un italiano che ha creduto in Mussolini e nella dittatura (vedere il saggio di Piero Meli Luigi Pirandello. «Io sono fascista», Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta- Roma, 2021) quindi intellettualmente inferiore non solo agli intellettuali antifascisti del suo tempo ma anche a un qualsiasi vicebrigadiere dei carabinieri, per esempio Salvo D’Acquisto che il 23 settembre 1943 si sacrificò per salvare dalla fucilazione un gruppo di civili presi dalle truppe naziste durante un rastrellamento a Palidoro. Uno dei catturati era Tarquinio Boccaccini, il padre del regista.
Sinossi: la compagnia di prosa comandata dalla Contessa Ilse arriva alla villa “la Scalogna” dove trova gli “scalognati”, capitanati da Cotrone, mago ed evocatore di spiriti, che la abitano. Ilse intende rappresentare La favola del figlio cambiato, testo anch’esso di Pirandello (ormai raramente rappresentato e a ragione), il quale non si peritava di promuovere la propria roba con il trucco del teatro nel teatro. Tuttavia c’è un’altra ragione, più bassa del rancore: nel 1934 Mussolini aveva obbligato il teatro Costanzi di Roma a ritirare La favola del figlio cambiato musicata da Gian Francesco Malipiero perché la storia del re e del deforme matto del villaggio che si scambiano l’identità veniva considerata una sorta di invito a ribellarsi all’autorità. Sicché questa favoletta finisce dentro al dramma della “nuova coscienza” politica. Il servo odia il padrone che non gli serve.
Cotrone consiglia ad Ilse di andare a rappresentare la Favola presso i giganti, che raffigurerebbero appunto il Potere. Il finale, mai scritto, fu raccontato dall’autore al figlio Stefano: i Giganti uccideranno Ilse, e con essa la poesia, la poesia del teatro. La redenzione d’un fascista è sempre una buona cosa. Mentre è cosa ottima la salvezza grazie a D’’Acquisto e attraverso il padre Tarquinio di Claudio Boccaccini, figlio che non è mai cambiato perché ha sempre perseguito il teatro.