“Circus dark queen”, ideato e diretto da Stefano Napoli. Con gli attori della compagnia Colori Proibiti. Al teatro Ulpiano di Roma
L’amour fu
Soprattutto oggi che da qualche lustro l’abitudine a un certo teatro di immagine è venuta scemando, per uno spettacolo come Circus dark queen, concepito e diretto da Stefano Napoli una dozzina d’anni fa e riproposto all’Ulpiano di Roma, bisogna munirsi di un piccolo libretto delle istruzioni: fermare la mente razionale e aprirsi fanciullescamente alle suggestioni che dal palco vengono offerte; non cercare la logica negli eventi scenici ma abbandonarsi alle analogie visuali e musicali; disporsi alla sinestesia, ossia guardare la musica e ascoltare le immagini; evitare ogni contatto con la storia del teatro ed osservare lo spettacolo come se fosse intrappolato nell’eterno presente; non sforzarsi di capire tutto ma lasciare passare anche l’incomprensione e fidarsi dell’intuizione.
Il significato letterale del titolo però viene rispettato. I personaggi che si presentano all’inizio hanno un tocco da circo felliniano, d’altronde entrano sulle note della Passerella d’addio di Nino Rota che chiude 8 ½. “Circo di paese” – scrive il regista in una nota – anche se da come entrano potrebbero ricordare Tadeusz Kantor per una specie di inquietudine che generano. Ci sono il domatore con la belva simboleggiata da un attore portato alla catena e una dark queen che è proprio una regina. Regina egizia per l’occasione, perché il sottotitolo dello spettacolo è Ricordando Antonio e Cleopatra di W. Shakespeare. Ricordando e non adattando, traendo, riducendo. Allora siccome la regia di Napoli detesta la logica formale, viene di dire per il puro piacere di contrariare: questo è teatro della memoria, la memoria è nella mente, quindi questo è teatro della mente. Il clown d’un circo di paese, quello che fra gli anni Sessanta e Settanta andava in tournée fra Sperlonga, Fondi, Minturno, Itri, portandosi dietro in una innecessaria gabbia un vecchio felino di savana abbonato al circolo ricreativo Peace and love, il clown in questione potrebbe irrispettosamente chiedere a Stefano Napoli cos’è il teatro della mente e se è uguale o contrario alla mente del teatro. E il regista potrebbe partire in una dissertazione sulla differenza fra scrittura drammaturgica e scrittura scenica, parteggiando ovviamente da quanto si vede per la seconda. Oppure mostrargli uno dei primi quadri dello spettacolo nel quale sopra un gioco di ventagli degli attori si sente una canzone francese di quarant’anni fa, Pour vous, composta per Dalida: “Merci d’être là tous en choeur / Les musiciens, les chanteurs / Le monsieur des projecteurs” – Grazie per essere qui tutti in coro / i musicisti, i cantanti / il signore dei proiettori.
Il signore dei proiettori è Mirco Maria Coletti che volge in vantaggio i difetti del palcoscenico – un po’ piccolo, un po’ corto, un po’ stretto e basso – e invece di occultarli e cercare di annullare le ombre, le esalta nere sui muri perimetrali bianchi. E così tutto è più dark, tutto è più black, in questo luna-park del nostro come-back. È il ritorno a un modo di intendere il teatro come un fluido poetico, riverrun, fluidofiume, prima parola del Finnegans Wake di Joyce che prosegue, “Past Eve and Adam’s…”, Passato Eva ed Adamo, da spiaggia sinuosa a baia biancheggiante, ci conduce con un più commodus vicus di ricircolo di nuovo a Howth Castle Edintorni. È il ritorno sempre allo stesso punto, all’uomo e alla donna, Adamo ed Eva, Antonio e Cleopatra. Come è difficile l’amore. Si ascolta Charles Aznavour cantare Aïe! mourir pour toi: “T’offrir ma dernière seconde / Et sans regret quitter le monde” -Offriti il mio ultimo secondo / E senza rimpianto lasciare il mondo. Come è facile certe volte l’amore. Asha Puthli nel ’76 canta The devil is loose, “il diavolo è libero, solitario, infelice” e Wanda Osiris negli anni Trenta “M’hai rapito il cuore sussurrandomi, cherì cherì cherì cherì / M’hai rubato un bacio supplicandomi, cherì cherì cherì cherì”. La Wandissima è regina e ogni regina è una Wandissima, da Shakespeare alle donnine di Macario che qui non c’entrano niente ma appaiono nella mente dello spettatore senza logica, per gioco degli opposti, perché sono il contrario della circus dark queen che sembra un’esistenzialista parigina, ha un teschio nelle mani e si benda la testa lentamente come una mummia silente. Qui si parla poco, si dice soltanto “Venga, signorina. Cerca qualcosa? Cerca l’amore?” e non molto di più mentre si ascolta, anzi mentre si osserva l’aria di Händel Lascia ch’io pianga.
In scena Francesca Borromeo, Alessandro Bravo, Lucrezia Coletti, Simona Palmiero, Giuseppe Pignanelli, Luigi Paolo Patano.