“Un curioso accidente” di Carlo Goldoni, regia di Gabriele Lavia anche interprete assieme a Federica Di Martino. Al teatro Argentina di Roma
Il caffè nel camerino del capocomico
Ci sono i bauli che fanno molto teatro, c’è lo specchio con le lucette che fa molto camerino di teatro e c’è anche l’altalena con i due tiri lunghi lunghi fino alla graticcia che fa tanto regia teatrale. Una consolazione che in Italia esista un capocomico pratico dell’arte alla maniera, come dire, tradizionale?, all’antica?, classica?, con gli attori che recitano bene, articolano correttamente e chiudono le sillabe finali (le sillabe portano la parola come le gambe il corpo), usano il diaframma di modo che la voce esca sonora ma non urlata, sanno muoversi sul palcoscenico, non s’impallano a vicenda e possiedono pure tempi comici.
Insomma nessuno fa cose strane in questa messinscena di Un curioso accidente, deliziosa commedia di Goldoni diretta da Gabriele Lavia al teatro Argentina di Roma, nessuno scade in sciatterie spacciate per modernità e informalità. Allestimento consolatorio perché la tecnica e il mestiere sono rassicuranti e riposanti anche se una moneta di cortesia al capocomico va pagata con l’ascolto condiscendente d’una specie di suo prologo allo spettacolo a commento del prologo di Goldoni alla commedia. È l’invenzione del meta-prologo. Il povero Carlo ha osato scrivere nell’introduzione al testo che l’argomento è “un fatto vero, verissimo accaduto, non ha molto tempo, in una città di Olanda. Mi fu raccontato da persone degne di fede in Venezia al Caffè della Sultana, nella Piazza di S. Marco…”. Eh no, dice Lavia alla platea, mai in piazza San Marco è esistito un Caffè della Sultana. Si stupisce il capocomico che un uomo del secolo dei Lumi come Goldoni, “un amico di Voltaire”, affermi una simile corbelleria? A quei tempi – spiega – esisteva un locale che effettivamente faceva un caffè detto “della sultana” ma si chiamava Alla Venezia trionfante. La faccenda dunque è assai diversa, siamo nel giallo storico, nel poliziesco illuministico da illuminare di verità perché non è che un lagunare direbbe “Andemo a la Venezia trionfante” bensì “Andemo da Florian” visto che il proprietario si chiamava Floriano Francesconi. Allora Carlo, figlio di un medico, Giulio Goldoni, quindi in teoria uso alla precisione malgrado l’arte di Esculapio all’epoca fosse più farsa che scienza, s’è macchiato di pressapochismo, di faciloneria, come un volgare giornalista d’una gazzetta dei tempi nostri. Oppure ha adoperato una sineddoche, bella figura retorica che indica la parte per il tutto: il caffè della sultana per il caffè Florian, il teatro per la vita e Lavia per la scena. Il meta-prologo infatti non dice quasi niente sulla commedia ma molto sul capocomico. Il quale racconta di questa pinzillacchera con lo stesso trasporto, la pari intensità didattica, l’uguale desiderio di trasmettere conoscenza e amore per il teatro da lui manifestati quando spiega la complessa etimologia delle parole “théatron” e “skēnḕ” che ad omaggiare la caratura di Lavia è più corretto scrivere in greco: “Θέατρον” καί “σκηνή”.
Lavia sta in scena non in modo semplicemente naturale ma lo stare in scena è la sua natura stessa. Non è un pesce nel mare che può nuotare in un acquario, un leone nella sua Africa in grado di vivere in un circo, un gatto sul cornicione che però dorme sul divano; sembra che altro posto per lui non vi sia salvo lo spazio fra un arco di proscenio e un fondale. Forse è per questa ragione che si è portato il camerino in scena con lo specchio, la sedia e la poltrona. Goldoni s’addice assai a un teatrante di tale schiatta che non soltanto sfrutta tutta la comicità del veneziano – e la platea ride spesso d’una risata piena e soddisfatta – ma perché a vederlo nomadizzare sul palco, e adirarsi, baccagliare, lamentarsi, ironizzare, beffeggiare, monologare, parlare al pubblico, dormire persino, si intuisce che per lui il teatro non rappresenta più una sineddoche della vita (e neppure una metafora) ma un’iperbole. Il costumista Andrea Viotti lo veste con una sorta di palandrana, a evitare costumi filologicamente settecenteschi che trasformerebbero l’iperbole in esagerazione, e lo consegna a una condizione dimessa ma ideale, che è di mettere l’attore e il personaggio interpretato, il ricco mercante Filiberto, a casa loro. Il secolo goldoniano è, sotto l’aspetto vestimentario, sui generis, citato mediante dettagli, il tricorno per esempio, o la giacca militare con le spalline indossata da Simone Toni che fa un buffo, scioccherellone e divertente tenente francese, Monsieur de la Cotterie. Sulle spalline si può essere pignoli quanto sul caffè della sultana: vengono adottate per la prima volta dall’esercito francese per decisione del duca di Belle-Isle, Maresciallo di Francia, con un regolamento datato 12 gennaio 1759. Ora, siccome Un curioso accidente è del 1760, per un anno Viotti non perse la cappa e vinse la giacca.
Palandrane per tutti dunque, vive e colorate però, in particolare per la figlia del mercante, Giannina, interpretata da Federica Di Martino che deve dare al personaggio un’impronta comica ma soprattutto di donna intelligente, non una femmina intrallazzatrice né una précieuse intellettuale alla Molière ma una persona consapevole di se stessa che difende l’amore. Per il resto si tratta di una classica abile commedia dei vecchi contro i giovani che si sviluppa in equivoci ed intrighi.
È difficile evitare di recitare bene accanto a Lavia, quindi non solo il primo ruolo femminile ma tutta la formazione va fluida su uno spettacolo che si permette anche qualche lentezza (tanto scorre sempre per tutte le due ore e mezza) e qualche gigioneria del protagonista perché il capocomico è lui e fa quello che vuole, anche le carrettelle che qui viene da chiamare padovanelle in quanto Goldoni era di Venezia, città che fa caso a sé però pur sempre in Veneto si trova. Il regista manda in scena anche un Arlecchino che il testo originale non prevede ma serve a dare il senso del gioco e a chiarire che la filologia è citazione, altrimenti è pedanteria.
Due pianoforti in scena accompagnano gli attori in canzoni scritte da Lavia stesso e musicate da Andrea Nicolini che anche interpreta Monsieur Riccardo (al secondo pianoforte Leonardo Nicolini). Questo è un mondo teatrale in cui come in amore, tutto è permesso (salvo la volgarità) e l’unica cosa che conta è la conquista della donna, cioè della platea. E la platea alla fine ha dimostrato di essere “tombée amoureuse”, direbbe il tenente francese, cascata in amore. Proprio un gran bel teatro.
Oltre ai citati, in scena lavorano, tutti meritevoli di applausi, Giorgia Salari, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini e Lorenzo Volpe. Scene di Alessandro Camera, luci di Giuseppe Filipponio.