“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, regia di Paolo Valerio, con Alessandro Haber, Alberto Onofrietti e Francesco Migliaccio. Al Quirino di Roma
I personaggi stanno dall’altra parte
Che faccia per esempio un anziano signore malato di Alzheimer (ne Il padre di Florian Zeller)oppure, a caso nella sua teatrografia, il monologo Bukowski (confessione di un genio) o ancora come in questi giorni al Quirino di Roma, interpreti Zeno Cosini il protagonista del romanzo di Svevo, Alessandro Haber lavora in un modo che si potrebbe definire del falso naturale, una specie di paradosso: recita la non recitazione. Il cinema, arte del falso, mente e non fa vedere questo meccanismo (che non è una prerogativa del solo Haber); invece il teatro, arte del finto, non ha pietà e svela la verità di un interprete, la sua natura.
Tuttavia questo tipo di attore può facilitare il lavoro del regista teatrale perché in genere non serve il personaggio ma se ne serve. Elimina così le infinite possibilità interpretative del ruolo rendendolo prevedibile al regista, il quale sa già come verrà fuori. Verrà fuori simile se non uguale ai precedenti personaggi affrontati dall’interprete in questione.
Nelle sue note di regia per La coscienza di Zeno, Paolo Valerio scrive: “E anche il personaggio di Alessandro Haber s’intreccia a questa inettitudine e talvolta, durante lo spettacolo, si sovrappone l’uomo all’attore…”. È proprio la sovrapposizione dell’uomo all’attore a venire fuori dalla prova di Haber, il quale in scena non porta Zeno ma se stesso. Forse è questo aspetto che interessa al regista. E deve avere i suoi motivi.
Della molteplicità di temi che l’analisi del romanzo sveviano offre, un paio sembrano essere centrali nello spettacolo: il gran fumo di sigaretta che un video proietta lungamente all’inizio dello rappresentazione rimanda naturalmente al vizio di cui Zeno non riesce a liberarsi, differendo ogni volta “l’ultima sigaretta”. La procrastinazione è la colpa. E poi ovviamente, l’inettitudine citata dal regista stesso. Si tratta di caratteristiche che qui paiono scaturire non dal personaggio ma dalla maniera dell’attore. Quindi fra Bukowski e Zeno non c’è differenza. E pare che il regista si astenga dal chiedergli qualcosa in più di un’aria inetta e dilatoria e in generale di un atteggiamento blasé di fronte alla vita. Eppure Valerio, che non si è avvalso del noto adattamento di Tullio Kezich, ha scritto assieme a Monica Cadena una sua un’elaborazione drammaturgica del romanzo in cui la complessità psicologica di Zeno si manifesta chiaramente. Il titolo dell’allestimento, La coscienza di Zeno, non è una dicitura di menù di ristorante che nasconde un piatto surgelato, non è un piccolo inganno, ma corrisponde realmente a una sofisticata e viva trasposizione scenica. Allora per cercare di capire come ha lavorato il regista con gli attori e con Haber, si può approfittare del fatto che ha sdoppiato il protagonista e osservare la prova di Alberto Onofrietti nel ruolo di Zeno giovane. Onofrietti va molto d’accordo con il personaggio, lo aiuta a venire fuori, ne rispetta la complessità e si inserisce all’interno di un collettivo di attori che agisce con coerenza stilistica e interpretativa. Si sviluppano due spettacoli, il primo a sinistra del palcoscenico (dal punto di vista dello spettatore) dove su una poltrona sta Haber quasi monologante che ogni tanto interagisce con gli altri nove compagni di scena, i quali occupano il resto dello spazio e danno luogo all’altro spettacolo. Si tratta di un’impostazione che rievoca la struttura del romanzo, non costruita su un ordine diacronico degli eventi ma sulle procedure sincroniche della coscienza e sulle sovrapposizioni temporali. Il vantaggio è drammaturgico – da una parte la coscienza, dall’altra il mondo, in questo caso la società borghese – ma anche teatrale: a sinistra Haber in solitudine che viene spettacolarizzato come vedette e a destra la compagnia che lavora con i personaggi. Così forse si spiegano i motivi di una regia che lascia Haber fare Haber e dà agli altri attori quel che è degli attori, accettando una discordanza interpretativa all’interno della sua messinscena.
La scenografia, costituita da qualche sedia e da una poltrona per ufficio, è di Marta Crisolini Malatesta che però firma anche il buon intervento sui costumi. I video (di Alessando Papa) a sostituire le scene, sono ormai una moda e contro la moda è inutile combattere, bisogna solo aspettate. Il collettivo di attori, ben impostato dalla regia, è formato da Francesco Migliaccio (il padre Cosini) e da Valentina Violo (Alberta), Ester Galazzi (Maria), Riccardo Maranzana (Coprosich), Emanuele Fortunati (Guido), Meredith Airò Farulla (Augusta), Caterina Benevoli (Carmen), Chiara Pellegrin (Ada), Giovanni Schiavo(il suggeritore).