“Riccardo III” di William Shakespeare, regia di Luca Ariano, interpretazione nel ruolo del titolo di Pietro Faiella. Al City Lab 971 di Roma
Se questo non è un uomo
Accompagnare la morte tragica di Riccardo III con Frank Sinatra che canta My way è un effetto un po’ retorico però efficace e pertinente: “Ho fatto quello che dovevo fare e l’ho portato a termine senza esenzione / Ho pianificato ogni itinerario tracciato, ogni passo attento lungo la strada / E di più, molto di più di questo, l’ho fatto a modo mio”.
In scena nell’ex cartiera ed ex centro sociale City Lab 971 di Roma, questa versione del Riccardo III di Shakespeare, progettata dal regista Luca Ariano e dall’attore protagonista Pietro Faiella, si caratterizza per la scelta di dare al ruolo del titolo il massimo peso rispetto a tutti gli altri personaggi. Nel dramma originale la parte di Riccardo duca di Gloucester è di ottomila parole, la più estesa mai scritta da Shakespeare dopo quella di Amleto. Non è nuova l’idea di accentuare vieppiù il ruolo del titolo – anche sacrificando gli equilibri interni del testo – e di conseguenza intensificarne la già bestiale ferocia, la malignità, l’iracondia, l’invidia di questo rospo, come lo chiama la duchessa di York sua madre, gobbo malformato negli arti. L’aberrante perversione della sua anima riflessa nella deformazione del corpo tracima da un precedente dramma di Shakespeare, l’Enrico VI parte terza. Così il personaggio descrive la propria venuta al mondo nella sesta scena del quinto atto: “La levatrice si stupì e le donne gridarono: «Gesù ci benedica, nato coi denti», ed era vero; e questo indicava chiaramente che avrei ringhiato e morso e fatto il cane. Allora, giacché il cielo ha foggiato così il mio corpo, l’inferno mi storpiò la mente in proporzione”. E sua madre nel Riccardo III stavolta, scena IV del quart’atto, conferma: “Tu sai bene che sei venuto sulla terra per far della terra il mio inferno. Un peso affannoso è stato per me la tua nascita…”.
Presentare il duca di Gloucester come un mostro segnato da Dio fin dal primo minuto di vita è indispensabile per marchiare il personaggio storico come usurpatore e legittimare l’ascesa della dinastia Tudor, quindi questo aspetto riguarda il rapporto di Shakespeare con il potere e la Corona. Dal punto di vista drammaturgico, Riccardo appare un monolite inalterabile di abiezione e di perdizione nell’inganno, nel crimine, nell’assassinio. Però a mano a mano che si procede nell’originale shakespeariano, ci si imbatte nella complessità del male che non è granitico ma contorto e storto come gli esseri umani. Tirare Riccardo fuori dal dramma come un blocco di cemento – a scapito di tutti gli altri personaggi che vengono eliminati dalla messinscena o ridotti a uno stato larvale – determina un vantaggio e un rischio: il primo è di esaltare l’aspetto disumano del potere e questa operazione rientra nella natura politica del teatro che sempre parla dell’oggi; Il secondo è di cadere nell’esagerazione e di trasformare Riccardo III in una maschera. Difatti l’interprete Pietro Faiella sta in scena dall’inizio alla fine dello spettacolo e per “tenere” il personaggio, dargli continuità di ritmo e di forza lungo un’ora e cinquanta di rappresentazione, deve inventare a ogni istante movimenti, gesti, sguardi, voci, toni, giri in tondo, avanti, indietro e facce, espressioni, occhiate, sguardi e ghigni beffardi, crudeli, che ricordano molto il Malcolm McDowell di Arancia meccanica. Impressione accentuata dal fatto che Riccardo III è vestito di bianco come Alex, il malvagio protagonista del film di Stanley Kubrick. Illuminato in modo quasi accecante, il bianco domina la scenografia (di Luca Ariano e Alessandra Solimene) costituita da un sistema di pannelli mobili che formano di volta in volta dei cubi o dei parallelepipedi rettangoli e possiedono la caratteristica di diminuire e aumentare lo spazio scenico, il quale è vuoto di qualsiasi oggetto. La metafora dovrebbe riferirsi alla mente di Riccardo, vuota d’ogni cosa se non della propria satanica persona e d’ombre degli altri esseri umani. Così concepito l’allestimento è una trappola per il personaggio che in un simile contesto, scenograficamente in movimento ma concettualmente bloccato, a fatica può avere un’evoluzione. Per esempio: la bramosia che il duca di Gloucester prova per Lady Anna, alla quale ha ammazzato il marito Edoardo di Westminster principe di Galles, ha caratteristiche di violenza, vizio e sopruso. Ma si tratta comunque di un trasporto amoroso, concupiscente quanto si vuole, che denota pur sempre un sentimento umano in quell’anima infernale. Contraddizione che nel dramma originale il genio di Shakespeare sfrutta in favore dell’azione e della complessità degli uomini ma che qui si rivela un’incoerenza: una maschera è un blocco unico e difficilmente ammette sfumature e discordanze. Ecco forse perché questo Riccardo III appare poco mobile e costringe il suo interprete, che offre una prova notevole fisica e mentale, a salti mortali recitativi, a dar fondo alle sue abilità tecniche e mimiche.
S’abbandona però l’etica che generalmente sottostà alla scelta di un tale dramma e si finisce nell’estetica, accentuata da un gioco di luci (firmate da Max Comincini) che da solo meriterebbe un’analisi spinta fino a sfiorare la teoria dei colori: oltre che di bianco ghiaccio, le pareti del cubo s’illuminano di arancio, celeste, verde, i quali non sono colori primari (ossia puri) ma secondari ottenuti mischiando i primari oppure aggiungendo il bianco come nel caso del celeste o d’un giallo, colore primario che a un certo momento appare ma molto chiaro. Nulla qui è puro, in sintonia quindi con l’anima corrotta del protagonista. Quanto al bianco, è considerato un non-colore (al pari del nero) e corrisponde al non-umano di Riccardo III. L’estetica non è un difetto, anzi, e lo spettacolo se ne arricchisce, però sarebbe in pericolo di fronte a una Sfinge che domandasse: cos’è l’uomo?
Troppa differenza corre fra la prova di Pietro Faiella e quella degli altri interpreti, in particolare i maschi: Roberto Baldassarri (Clarence / Hastings / sindaco), Luca Di Capua (Catesby / sicario / cittadino) Alessandro Moser (Buckingham / sicario), Mirko Lorusso (Rivers / Stanley). La regia di Ariano non sembra fornire loro delle indicazioni chiare e semplici e l’impegno nei doppi e tripli ruoli non facilita il compito interpretativo. Per le donne il discorso è diverso: tutte più in parte, più precise e “giuste”, si distingue Romina Delmonte (Margherita d’Anjou) mentre Lucia Fiocco è una lady Anna ben caratterizzata a cui manca solo una maggiore ambiguità per completare il personaggio (in fondo sposa l’uomo che almeno all’inizio più la stomaca al mondo), Liliana Massari che fa la duchessa di York, ruolo qui assai ridotto, attraversa lo scontro con suo figlio Riccardo con autorevolezza e la maledizione materna che scaglia contro di lui è potente; a Gilda Deianira Ciao il ruolo di Elisabetta. Costumi di Elisa Leclè.