Luca Amorosino e Carlo De Ruggieri in “Un giorno come un altro”, testo e regia di Giacomo Ciarrapico. Alla Sala Umberto di Roma
Un seggio per due
Due personaggi: Marco espansivo, sfrontato, facilone, che “banca”, come dice lui, su un sito internet di scommesse qualunque cosa, la morte di Renzi oppure un golpe nella Repubblica Centrafricana; Ranuccio invece, complessato, timido, pignolo, è un ricercatore universitario di storia impegnato in un suo studio a sfatare “i luoghi comuni sulla pace di Aquisgrana”.
È lo schema classico della coppia di caratteri antitetici da infilare in una situazione chiusa e mandare al conflitto, al litigio, al dispetto, allo scherno reciproco. Se per caso nelle grotte del Paleolitico si è fatto un po’ di teatro, questa deve essere sicuramente stata una delle prime tecniche della comicità. Poi però la macchina, sicura come una polizza dei Lloyd’s, da sola non basta se non si mette il carburante che nella tradizione italiana è soprattutto la battuta. Infatti la situazione ideata da Giacomo Ciarrapico per lo spettacolo da lui scritto e diretto alla Sala Umberto di Roma, Un giorno come un altro, resta inalterata dall’inizio alla fine. Il giorno in questione è elettorale, Ranuccio e Marco fanno gli scrutatori in un seggio dall’alba a mezzanotte ed eccoli come mosche in un bicchiere rovesciato. Nessuno verrà a votare, il popolo si è stufato dei maiali. In un posto dove non succede niente e non viene nessuno ma dal quale i due non possono andare via (Beckett non c’entra), si sviluppa il dialogo fra lo scommettitore e l’intellettuale. Il pubblico della “prima” non è mai affidabile però è vero che la platea ride assai, le battute sono efficaci e numerose, i due interpreti Luca Amorosino (Marco) e Carlo De Ruggieri (Ranuccio) hanno tempi giusti e naturali, sfruttano tutte le opportunità ma non esagerano, non sbracano nella caricatura anche se Ciarrapico suddivide lo spettacolo in una successione di quadri intervallati da bui. Questo è un altro vecchio trucco ma la comicità è tutta fatta di vecchi trucchi, sempre piacevoli e consolatori perché nel disordine del mondo almeno questa è una cosa sicura. Il rischio sta nel fatto che, tagliata a scenette la rappresentazione, gli attori potrebbero mettere un piede nell’avanspettacolo o nel varietà televisivo. L’autore e regista evidentemente si fida e viene ben servito dalla coppia di interpreti che resta nella commedia brillante ed evita la farsa, mantiene i personaggi e non li degrada a macchiette.
Se la situazione resta ferma, il rapporto fra i due si muove. L’azione sta qua, nell’evoluzione del conflitto interpersonale che progressivamente porta a un rovesciamento dei ruoli: il topo di biblioteca si rivela più rivoluzionario dell’avventuriero digitale. Da tale scelta drammaturgica si può arguire che Ciarrapico resta un uomo del Novecento (cita persino Papa Luciani) pur essendo un autore di oggi.
L’aspetto per così dire politico della commedia che viene citato anche nel programma di sala – la questione democratica, l’assenteismo elettorale, il distacco della popolazione civile dalla classe politica incivile – è affidato a francobolli di dialogo, a osservazioni sparse, a considerazioni che paiono piazzate in vari punti della drammaturgia per giustificare il luogo in cui si svolge la giornata, un seggio elettorale. Non produce conseguenze né conflitto, non condiziona i personaggi. Il nodo della commedia resta l’intreccio contingente di due vite normali, fallite ma non troppo, modeste ma non squallide: una classe media in disarmo e disarmata. Non è male ma non è tutto perché la frana della classe media è un grande fatto politico. Tuttavia uno spettacolo è quel che si vede in scena, non quello che non si vede. E quanto Ciarrapico e i suoi due attori mostrano è teatro brillante.