“Il tango delle capinere” di Emma Dante, con Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. All’Argentina
C’è qualcuno al Teatro di Roma?
Non è molto di più d’un esercizio, allo stesso modo degli studi di mani, cavalli o profili femminili che i pittori disegnano a matita sui blocchi di carta Fabriano. Il tango delle capinere di Emma Dante, la quale dirige Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, è una di quelle cose alla Emma Dante, pratiche di laboratorio teatrale portate in scena come spettacolo, lavoro sul corpo, luci basse, due bauli sul palco. Come gli ombrellini che i registi usano quando non sanno bene cosa fare ma vogliono un po’ di atmosfera surreale e suggestiva, i bauli a teatro vanno bene per tutto, il one-man show, il cabaret, il dramma borghese, la Commedia dell’Arte, la riforma goldoniana, la sperimentazione, l’avanspettacolo e persino lo spettacolo.
Questa è la seconda fatica che la Dante mette in scena all’Argentina di Roma dopo Pupo di Zucchero nell’ottobre scorso. Domanda: perché Dante ha diritto a due titoli nella stessa stagione dello stabile capitolino? C’è carenza di registi in Italia, di attori, di drammaturghi, allestimenti, idee? A guardare il cartellone 2022 – 2023 ormai praticamente concluso, appare chiaro che il Teatro di Roma ha il vento in rotta: se non si tiene conto di letture varie, Storie di Natale, e altre seratine del genere oltreché di allestimenti da quattro repliche, la stagione in abbonamento è cominciata con la ripresa d’un Amleto di Giorgio Barberio Corsetti già visto nel 2021 per proseguire con lo spettacolo di Massimo Popolizio, Furore da John Steinbeck, che andò in scena addirittura nel 2019 all’India, prima del Covid. Quindi gli spettatori che hanno le loro abitudini allo stabile non hanno sentito la necessità di andare all’Argentina fino allo scorso gennaio. Anche Popolizio ha goduto quest’anno dell’onore di due spettacoli all’Argentina (senza contare le sue due serate di letture del Belli a dicembre): oltre a Furore, ha offerto Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller andato in scena a marzo. Il messaggio è chiaro: il paese è spopolato, l’inverno demografico ha colpito duro e bisogna arrangiarsi con i pochi artisti della scena rimasti.
Se gli artisti vengono chiamati due volte in una stagione, ma anche tre, quattro, dieci, non c’è ragione che non vadano. Questo teatro – teatro della Capitale d’Italia – è in queste condizioni soprattutto per colpa della politica, la quale evidentemente si oppone fermamente alla possibilità che lo stabile venga gestito come si deve, con una linea (che giustifichi artisticamente anche le chiamate doppie o triple di artisti), una continuità, una responsabilità intellettuale, un progetto insomma necessario all’attività teatrale e culturale degna d’una Capitale. I politici, locali e nazionali, temono, odiano la cultura, in particolar modo il teatro che ritengono attività pericolosa e sovversiva per la sua capacità di ingenerare nelle platee ragionamento e senso critico. Ogni sforzo è buono per facilitare, accelerare se possibile, il declino artistico, culturale e intellettuale degli italiani incominciato trent’anni fa con la “discesa in campo”, espressione palmare, eppure ignorata o fraintesa, a indicare il piano di sostituzione delle teste con i palloni e le teletette.
La capinera, per chi non lo ricordasse, è un piccolo uccello ed è anche una canzone degli anni Venti di Bixio Cherubini portata al successo da un cantante dell’epoca, Gabrè, in seguito interpretata da molti altri. Questa canzone parla della prostituzione e delle sue voluttà: “A mezzanotte va / La ronda del piacere / E nell’oscurità / Ognuno vuol godere”. Né l’uccello né la canzone hanno a che vedere con lo spettacolo, salvo che la seconda viene a un certo momento proposta nell’interpretazione di Nilla Pizzi. Poi esiste la Storia di una capinera, romanzo epistolare di Giovanni Verga che pure non pare avere rapporti con lo spettacolo. Si narra la vicenda disgraziata d’una fanciulla destinata al convento che ama un ragazzo e che ha in comune con la protagonista della Dante degli accessi di tosse. Di che parla questo spettacolo? Racconta a ritroso la vita d’una coppia, partendo dal tempo della loro vecchiaia e tornando indietro fino alle loro nozze, la gioventù, la prima notte d’amore, il primo incontro. La regista fa ballare una donna e un uomo su vecchie canzoni, Lontano lontano di Luigi Tenco, E se domani interpretata da Mina, I Watussi di Edoardo Vianello, Ba ba Baciami piccina, una milonga di Astor Piazzolla.
È sempre importante per ogni artista leggere e osservare cosa scrivono e fanno altri artisti. Per quanto riguarda i racconti scritti a ritroso dalla fine all’inizio, se ne può citare uno assai noto di Martin Amis, La freccia del tempo, in cui il protagonista va dalla morte alla nascita. Invece l’idea di ripercorrere una vita sul ballo e le canzoni è stata messa in scena con il titolo Le bal da Jean-Claude Penchenat nel 1981 al Théâtre Firmin-Gémier di Antony (a una trentina di chilometri a sud di Parigi); l’ha trasformata in un film, Ballando ballando, Ettore Scola nel 1983. Ci sono inoltre due versioni teatrali italiane: quella di Giancarlo Sepe nel 1998 e la successiva di Giancarlo Fares nel 2016.
I due interpreti di questo Tango delle capinere, i quali per il loro impegno meritano di essere citati una seconda volta – Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco – passano parte del tempo l’una nelle braccia dell’altro. E tutto lo spettacolo nelle mani della Dante. C’è qualcuno al Teatro di Roma?