“I due Papi” di Anthony McCarten, regia di Giancarlo Nicoletti, con Giorgio Colangeli e Mariano Rigillo. Alla Sala Umberto di Roma
Nel falso il vero: gli attori
Di quanto succede sulla scena della Sala Umberto di Roma fra Benedetto XVI e il futuro Papa Francesco, ancora cardinale e arcivescovo di Buenos Aires, non esistono fonti. Si tratta quasi certamente di un incontro fittizio. Non supportato da nessuna documentazione è anche il motivo iniziale addotto dal dramma di Anthony McCarten, I due papi, per avviare il dialogo: il viaggio a Roma di Bergoglio deciso a presentare di persona al Pontefice una sua richiesta scritta di ritiro dal servizio nella diocesi portegna. Uno storico potrebbe infastidirsi di questo mischiamento di vero e falso. Il testo, datato 2017 quando “Il pastore tedesco” era ancora fra noi, non ha la distanza temporale che permette qualche sgarro veniale alla verità storica in nome della spettacolarità.
C’è da chiedersi se le manipolazioni dei fatti, che abbiano o meno lasciato la dimensione dell’attualità, possano essere giustificate dalla finzione teatrale o cinematografica e non siano invece molto pericolose e sfruttabili per operazioni faziose e falsificazioni propagandistiche. Per esempio: non c’è prova che consenta di mettere in bocca a Benedetto XVI, come fa McCarten, il suo desiderio di affidare il soglio di Pietro a Bergoglio, operazione peraltro assai poco realizzabile in quanto il Papa rinunciatario non partecipò al conclave che elesse Francesco. Neppure è vero, come è detto nel testo, che da cardinale Bergoglio abbia accusato Benedetto XVI di essere un conservatore e si sia proposto come l’esponente di un’ala riformista della Chiesa. Però è vero che Ratzinger suonava il pianoforte e che Bergoglio è un patito di calcio e tango.
Tuttavia dal punto di vista teatrale, un vantaggio questo dramma lo ottiene dal suo impasto di vero e falso: per essere verosimile, impone la scelta di due interpreti di gran calibro come sono stati Jonathan Pryce e Anthony Hopkins nell’omonimo film del 2019 diretto da Fernando Meirelles. Gli attori devono giustificare la falsità della situazione con la verità dei personaggi, con un’attendibilità, una forza, un carisma che restituiscano alla finzione il suo statuto narrativo di illustrazione e interpretazione del reale. Superate in grazia di Giorgio Colangeli e Mariano Rigillo, rispettivamente Ratzinger e Bergoglio nell’edizione teatrale italiana, le forti riserve sull’onestà intellettuale di una storia così pesantemente contraffatta, viene fuori con chiarezza quanto è interessante dello spettacolo, ossia lo scontro fra due opposte visioni della Chiesa e del mondo. Uno scontro è sempre crisi e crisi vuol dire teatro.
Dietro un dialogo così preciso sul modo di ciascuno dei due Pontefici d’intendere il governo e l’apostolato del successore di Pietro, si sente comunque uno studio, una ricerca su queste due personalità. È chiaro che la storia della rinuncia di Ratzinger nel febbraio 2013 e dell’ascesa al soglio di un gesuita diverso dal suo predecessore al punto da poterlo disegnare come opposto, è un bel soggetto. Però McCarten non è un volgare estensore di copioni. Appaiono nel dramma temi complessi e delicati che richiedono conoscenza e abilità nel trattarli, la pedofilia dei preti, il celibato, la comunione agli omosessuali e ai divorziati. L’autore maneggia questioni di dottrina, morali, etiche e anche teologiche come l’immutabilità di Dio – tema abissale (“Io sono il Signore, non cambio”, Mal 3,6) – che crea una natura in perenne mutazione. Tuttavia il dialogo resta semplice senza dare troppo l’impressione di scadere in un semplicismo ridicolo. Non scende ovviamente in profondità teologali perché la teatralità ne risentirebbe e anche perché addentrarsi in questioni di ontologia divina è alquanto difficile. Qui l’equilibrio sta fra intrattenere e sostenere.
Quando però si arriva alla doppia confessione del futuro Papa al Pontefice e viceversa, esce l’aspetto più politico del dramma. Bergoglio ammette di essere addivenuto a compromessi con il regime argentino del generale macellaio Videla e si giustifica sostenendo di avere operato nell’intento di salvare sacerdoti e suore che rischiavano il carcere, le torture, i vuelos de la muerte sull’oceano. Ha tradito o non ha tradito? Ora, questo aspetto della biografia di Bergoglio è molto controverso, oggetto di dibattiti, interviste, libri, accuse, difese, smentite. Qui però un po’ sbrigativamente si assiste all’assoluzione di Bergoglio da parte dell’autore attraverso Ratzinger. E al momento della confessione di Benedetto XVI, la faccenda si fa vieppiù spinosa: il Papa di McCarten ammette di avere protetto un prete pedofilo sperando che si redimesse, o che comunque smettesse, ed invece l’orco in tonaca ha continuato indisturbato. E poi Ratzinger confessa di pregare e credere in Dio ma di non sentire più la Sua voce come una volta. Quindi intende dimettersi, decisione irrevocabile. Pochi mesi prima di morire però, il vero Ratzinger mandò il 28 ottobre scorso una lettera al suo biografo Peter Seewald in cui scriveva che il “motivo centrale” della sua discesa dal soglio di Pietro è stata “«l’insonnia che mi ha accompagnato ininterrottamente dalle Giornate mondiali della Gioventù a Colonia”, nell’agosto 2005, pochi mesi dopo la sua elezione. L’insonnia è stata la causa- sosteneva Ratzinger – non il silenzio di Dio o lo scandalo della pedofilia (che in verità non farebbe dormire neanche un orso a gennaio se provvisto di carità cristiana). Questa è un’altra delle ragioni per le quali è sempre bene far passare qualche decennio prima di cincischiare la Storia, la quale ha il brutto difetto di superare l’immaginazione.
Senza Colangeli e Rigillo, che sviluppano con intensità interpretativa i caratteri dei due personaggi, il dramma sarebbe potuto apparire alla fin fine difettato da una benevolenza acritica e da un clericalismo controproducente. Ma i due attori seducono lo spettatore e ne suscitano apprezzamento e approvazione per l’umanità che conferiscono a Ratzinger e Bergoglio. Un’umanità che finisce per favorire sottilmente le due figure spogliandole del loro imperio.
Al di là del buon lavoro complessivo dei costumisti Vincenzo Napolitano e Alessandra Menè, il segno delle scarpe indica la distanza iniziale fra i due personaggi: i famosi mocassini lisci, senza cuciture, d’un rosso fiammante, fatte a mano su misura che tanto danno procurarono alla popolarità di Benedetto XVI; e le scarpe grosse, nere, con i lacci di Bergoglio che hanno indicato ai fedeli il ritorno del papato sulle strade, se non della povertà, almeno di un’austerità, di una moderazione più consona al vicario di Cristo. Magnifiche le scenografie di Alessandro Chiti per i luoghi deputati nei quali l’azione si svolge: i giardini di Castel Gandolfo, la terrazza di San Pietro, un piccolo e intimo ambiente ecclesiastico a Buenos Aires e una riproduzione parziale del michelangiolesco Giudizio universale che s’ammira meravigliati nella Cappella Sistina e che genera un effetto potente sullo spettacolo. Assieme ai due protagonisti, lavorano in scena Anna Teresa Rossini nella parte non facile di assistente, amica, confidente del Papa che l’attrice calibra mantenendo la sua suor Brigitta fra il sentimento di devozione e di rispetto che si deve al Santo Padre e la familiarità persino un po’ brusca della vicinanza quotidiana. A Ira Fronten il ruolo di Suor Sofia accanto all’arcivescovo di Buenos Aires. La regia di Giancarlo Nicoletti organizza tutta la messinscena con attenzione, con un senso pulito di ordine e spazio e poi affida lo spettacolo all’arte dei due protagonisti.