“Il cappotto” da Nikolaj Gogol’, drammaturgia e regia di Alessio Bergamo, produzione di Cantiere Obraz, Teatro dell’Elce, Teatro Solare in collaborazione con Postop Teatro. Al Palladium di Roma
Mettere e togliere in scena
Del Cappotto di Gogol’ andato in scena al Palladium di Roma con drammaturgia e regia di Alessio Bergamo, ci sono circa sei finali. Forse non sono sei, potrebbero essere tre, ma a teatro conta la sensazione, non la realtà. Se delle due ore di spettacolo, Bergamo avesse tagliato una quarantina di minuti, ci si sarebbe trovati di fronte a una godibilissima successione di abili invenzioni sceniche e di surreali idee, poetiche e teatrali. Invece verso l’ora e e un quarto si prende ad aspettare con ansia la fine, ragion per cui dal quel momento in poi le singole scene, spesso costruite come successioni di immagini indipendenti l’una dall’altra e conchiuse in se stesse, sembrano ciascuna quella conclusiva.
Il fatto è che le idee si ripetono, magari con varianti, come i quattro o cinque momenti di simulazione del forte vento freddo del nord che porta via uomini e cose, oppure i balletti e sgambettamenti del cappotto, vero e proprio personaggio, un pastrano senza testa e con delle belle gambe femminili. Sembra che la preoccupazione principale di Bergamo sia di non buttare via niente e di sfruttare e reiterare il più possibile, di non rinunciare a nessuna delle trovate venute fuori durante le prove, chiaramente lunghe, impegnative e di impronta laboratoriale. Ma una regia è come la scrittura, anche teatrale, e scrivere è tagliare. Lo scrittore lavora similmente allo scultore, il quale toglie il marmo in eccesso per rivelare la figura. In questo spettacolo, la figura, ossia l’idea, soffoca dentro il troppo e il ripetitivo. Peccato.