“Anna Cappelli” di Annibale Ruccello, interpretazione di Giada Prandi diretta da Renato Chiocca. Alla Cometa Off di Roma

Anna Cappelli

Mangiare è essere mangiati

A leggere le poche didascalie del dramma per una voce femminile che Annibale Ruccello scrisse poco prima di morire a trent’anni nel 1986, si possono forse capire alcune intenzioni del regista Renato Chiocca che dirige Giada Prandi nell’allestimento del testo alla Cometa Off di Roma.
La prima didascalia informa che “L’azione si svolge in Italia negli anni ‘60”. Quindi la canzone che dà il via allo spettacolo è La bambola, primo successo di Patty Pravo nel ’68. Però qui c’è una sorta di scherzo del regista perché La bambola racconta d’una donna che chiede al suo moroso un po’ di rispetto: “No ragazzo, no / Tu non mi metterai / Tra le dieci bambole / Che non ti piacciono più”. Il paradosso sta nel fatto che il dramma di Ruccello racconta tutto il contrario: una donna possessiva fino alla pazzia sottomette il suo uomo e non potendolo possedere totalmente finisce per mangiarlo quando lui si stufa e decide di andarsene. La prima scena si svolge nello squallido e puzzolente appartamento della signora Tavernini alla quale Anna ha affittato una stanza. L’autore annota che la protagonista seduta a un tavolo sta mangiando pasta e piselli, attività del tutto ordinaria salvo che annuncia il tema di questa tragicommedia, l’atto di mangiare. Anna divora tutto quello che trova, metaforicamente e letteralmente, è una figura grottesca della società dei consumi, tutto deve essere suo, l’amore, la casa, il futuro, persino i piatti nella credenza, ripete continuamente l’aggettivo possessivo “mio”. L’azione si svolge a Latina – cittadina di provincia laziale inventata dal fascismo – nel periodo del boom economico ma l’opera è scritta negli anni Ottanta dell’ “io”, del “mio”, l’edonismo, la Milano da bere, la Roma da ingoiare, probabilmente la Latina da crapulare, l’ultimo decennio durante il quale gli italiani hanno creduto di essere invitati a una festa e hanno dovuto pagare il biglietto senza nemmeno la riduzione bambini. Le sei scene successive del testo si svolgono in ufficio, in strada, nella camera in affitto, nella cucina della casa da dodici stanze di proprietà del compagno con cui convive more uxorio. Infatti il benestante ragionier Tonino Scarpa non la vuole sposare sostenendo che il matrimonio è cosa da borghesi. Opinione possibile nella testa di un ragioniere di Latina ma a teatro suona comica.
Tutti questi luoghi necessiterebbero di continui cambi di scena che per un monologo di un’ora appesantirebbero l’allestimento anche economicamente. Allora la soluzione dello scenografo Massimo Palumbo  è di montare dei tubolari da gazebo di giardino senza la tenda come se questo spazio delimitato rappresentasse la mente di Anna. La metafora elimina i problemi, abbatte i costi e risolve la rappresentazione.
Al centro di tutto però c’è l’attrice. Giada Prandi deve disegnare una parabola interpretativa che porti in modo credibile il personaggio alla follia partendo dalla condizione di giovane donna nervosetta, ansiosa e maniacale, precisina e introversa, capelli corti biondi, rossetto rosso, smalto rosso alle mani e ai piedi, una piccolo-borghese educata e benpensante, tutta mossette e leziosaggini, quasi un fumetto, una Minnie di Topolino, però più nevrotica ed alienata. Nel corso della tragicommedia deve lasciare salire in superficie il cannibalismo psicopatologico che muove Anna verso il pasto del ragioniere per incorporarlo in eterno dentro di sé ed impedire che altre donne lo posseggano.
Un po’ come un altro celebre monologo femminile, La voce umana di Jean Cocteau, Anna Cappelli si regge solo sulla personalità dell’interprete, le caratteristiche, la presenza scenica, il suo modo di muoversi e di impostare la battuta. Prandi lavora molto sui dettagli nei gesti e nei toni con risultati visibilmente felici ma in tanta abbondanza recitativa probabilmente perde qualcosa di Anna Cappelli, forse l’estrema malinconia di essere se stessa. Mangiare l’altro è un omicidio per diventare l’altro, quindi per essere mangiati.

Marcantonio Lucidi,
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