“Il compleanno” di Harold Pinter, regia di Peter Stein, con Maddalena Crippa e Alessandro Averone. Alla Sala Umberto di Roma
Nessun posto dove andare
In un’intervista con uno dei maggiori critici teatrali del Novecento, Kenneth Tynan, per la Bbc nel 1960, Harold Pinter disse: “Credo che sia impossibile – lo è certamente per me – cominciare a scrivere un’opera teatrale partendo da una qualsiasi idea astratta… Io comincio a scrivere partendo dall’immagine di una situazione in cui sono coinvolti due personaggi, e questa gente per me resta sempre praticamente reale; se così non fosse la pièce non potrebbe essere scritta”.
Quindi nessuna idea preconcetta regge Il Compleanno (Birthday Party), attualmente in scena alla Sala Umberto di Roma con regia di Peter Stein, che Pinter ventisettenne aveva scritto un paio d’anni prima dell’intervista. Infatti i due personaggi in questione, Goldberg e McCann, un ebreo fintamente pieno di saggezza e bonomia il primo, l’altro un irlandese brutale e di poche parole, ricordano Ben e Gus, i sicari d’un altro capolavoro pinteriano, Il calapranzi, scritto nel ’57 (ma rappresentato tre anni dopo). Sempre nel 1960 in un altro colloquio trasmesso dalla Bbc, il drammaturgo inglese fece una riflessione significativa: “Tutto è divertente; la più grande serietà è divertente; perfino la tragedia è divertente. Io credo che quello che cerco di fare nei miei lavori sia questo: cogliere la riconoscibile realtà dell’assurdità delle azioni che compiamo, del nostro comportamento e del modo in cui parliamo”. La parola è stata detta: “assurdità”.
Nel fondamentale saggio Il teatro dell’assurdo – mai Martin Esslin sarà abbastanza ringraziato per averlo scritto nel 1961 – si legge: “Il compleanno è stato interpretato come un’allegoria del potere del conformismo… Eppure il lavoro può essere visto anche come un’allegoria della morte”. Ma se così fosse non sarebbe Teatro dell’Assurdo, partirebbe da una tesi precostituita e i personaggi del dramma conterrebbero un passato dal peso non ignorabile nel presente dell’azione teatrale. Esslin spiega: “Un’opera come questa esplora semplicemente una situazione che è di per se stessa una valida immagine poetica, che viene immediatamente recepita dal pubblico per la sua veridicità e pertinenza. Pinter sta parlando unicamente della ricerca patetica della sicurezza da parte dell’individuo; delle sue paure e ansietà segrete; del terrore del nostro mondo così spesso nascosto dalla falsa bonomia e dalla brutalità dei bigotti; della tragedia che nasce dalla mancanza di comprensione tra persone a livelli di coscienza differenti”.
Nowhere to go, nessun posto dove andare, come titolava un thriller anni Cinquanta sceneggiato da Kenneth Tynan. Allora tanto vale restare dove si sta, anche all’inferno (come in A porte chiuse di Jean-Paul Sartre), nella filosofica immobilità dell’Assurdo. Le pagine di Esslin sul Compleanno contengono l’analisi da far valere in generale per qualsiasi messinscena del testo.
Nel seguire l’azione, lo spettatore dovrebbe evitare quel lavorio della mente che cerca una logica nella successione degli eventi e si stranisce alla scompiacenza dell’aspettativa. Il divertimento non sta nella formulazione di un’ipotesi teorica sul significato dello spettacolo ma nell’osservazione pura e semplice della sfasatura fra l’intenzione e l’azione dei personaggi, della distanza fra situazione e condizione, degli imbarazzi fra l’illogica logica mondana e un ipotetico mondo logico. Bisogna semplicemente guardare il lavoro di un artista come Peter Stein che schiude davanti agli occhi del pubblico l’immagine poetica pinteriana e suscita una sensazione di minaccia distesa su tutta la pièce. Sensazione causata dalla disconnessione dei rapporti fra esseri umani, tutti stranieri l’uno per l’altro, ciascuno abitato da una lingua propria riarticolata però nella convenzione di una finta comunanza semantica. Copre la paura una spensieratezza disonesta che cade continuamente e viene rialzata con l’inganno e l’illusione, le due grucce rotte della speranza. La comicità procede dall’uomo che perde l’equilibrio e con esso la dignità, ma nel drammaturgo anglosassone il divertimento è raffinato, la risata è silenziosa, fredda, perché la caduta pinteriana è una rovina interiore. Lo spettatore si consoli di non essere il solo nella solitudine e goda d’uno spettacolo che Peter Stein mette in scena con il proprio stile, il proprio modo di fare teatro ma rispettando l’autore, una procedura che pare riesca a pochi ultimamente. Ci vuole un grande regista per ricordare agli altri registi che il testo non è il loro nemico, non rappresenta un attacco alla loro personalità, originalità, individualità.
Con una direzione che ha chiaro il significato del dramma, e probabilmente di tutta l’opera di Pinter, e con una traduzione ottima, teatrale, di Alessandra Serra, agli interpreti viene più facile non stare sulla tecnica per la tecnica ma per l’arte. È questo il senso di una regia. Maddalena Crippa nella parte di Meg, proprietaria di una squallida pensione in una città di mare, è una donnetta sciatta e ciabattona ma per la festa di compleanno del titolo, si trasforma in una signora charmante e corteggiabile, allegra come una pappagallina in gabbia speranzosa che stasera il gatto finalmente l’acchiapperà. Non facile il suo ruolo ma l’attrice è credibile sia come maliarda che come scialba affittacamere dalle tendenze materne e al contempo erotiche nei confronti del suo inquilino Stanley.
Stanley è un soggetto apatico del quale non si sa cosa faccia né come e perché si trova nella casa ma a un certo momento parla di un suo concerto pianistico che riscosse successo in passato. Alessandro Averone interpreta il personaggio con una specie di indolente tensione e lo posa sul ciglio d’un burrone con un piede nel vuoto e l’altro incatenato a una pigrizia che ne impedisce la caduta. Per andare giù almeno la volontà di fare un passo è necessaria.
Goldberg e McCann vogliono una stanza nella pensione di Meg, non si sa da dove arrivino, però diventa subito chiaro che sono lì per Stanley, forse sicari di una misteriosa organizzazione (come Ben e Gus), forse poliziotti o infermieri venuti per riportarlo in manicomio, comunque rappresentano il suo destino. Devono apparire misteriosi e inquietanti, ma ciascuno a suo modo, proprio come li restituiscono Gianluigi Fogacci, un Goldberg di giovialità sinistra, da carnefice che ride e canta mentre scuoia, e Alessandro Sampaoli, il quale fa di Mcann un nevrotico inquieto, servile, con l’aria d’un killer troppo zelante che spara prima ancora di ricevere l’ordine dal padrone.
Petey, il marito di Meg, si occupa di affittare sedie a sdraio sulla passeggiata a mare: un uomo silenzioso, pacato, interpretato da Fernando Maraghini con la flemma britannica del signore che legge il giornale e si disinteressa d’ogni cosa non perché sia arrivato a capire che al mondo nulla ha importanza ma perché non si è mai neanche posto la domanda sul mondo.
Lulu è la bambola bionda della porta accanto, carattere che Elena Scatigno marca d’una stupidità vitale, quella che eccita nel maschio un istinto predatorio.
Con questi attori che disegnano in modo così preciso i rispettivi personaggi, tutto si giustifica, la festa diventa un bailamme insensato, il terzo atto una tragedia irrazionale, l’assurdo si è installato nel dramma di Pinter accomodandosi sulla regia di Stein e si è trasformato nella nostra coscienza che ci guarda seduti in platea ridendo di noi.