“Aspettando Godot” di Samuel Beckett con Enzo Vetrano e Stefano Randisi, regia di Theodoros Terzopoulos. Al Vascello di Roma
Cento franchi per En attendant Ego
Sarebbe molto bello vedere Enzo Vetrano e Stefano Randisi fare Aspettando Godot perché lo spettacolo in scena al Vascello di Roma non è il capolavoro di Samuel Beckett, anche se così è annunciato in locandina con la traduzione classica di Carlo Fruttero. È invece En attendant Ego messo in scena dal greco Theodoros Terzopoulos che firma anche il resto, scene, luci e costumi. Bisogna però essere indulgenti e provare tenerezza nei confronti di questo regista (il cui nome sui manifesti è stampato a caratteri più grandi di quello dell’autore) che si sente talmente all’altezza del maggior drammaturgo del Novecento da infilare cose sue nel testo originale come alcuni raffinati e preziosi inserti lessicali da donare a Vladimiro ed Estragone: “Vaffanculo”, “Topo di merda”. Poesia pura. En attendant Rimbaud. Lo spettacolo è un pacchettone di trovate di Terzopoulos, coltellacci che dondolano appesi a cordicelle – en attendant couteau – e facce imbrattate di sangue – en attendant sado – come in una farsa macabra e truculenta del Grand-Guignol primi Novecento. Quindi uno spettacolo nuovo, mai visto, provocatorio. En attendant rétro. Quando poi scende la croce egizia, simbolo della vita futura, e il messaggero mette la testa nell’ansa per annunciare che Godot verrà domani, allora con un bel pasticciotto simbologico si raggiunge il parossismo beckettista, backettista, backettone e suona l’Aspettando mélo.
Fin dall’inizio Terzopoulos ha macellato il dramma originale e ha tolto la scena iniziale descritta dalla seconda didascalia: “Estragone, seduto per terra, sta cercando di togliersi una scarpa. Vi si accanisce con ambo le mani, sbuffando. Si ferma stremato, riprende fiato, ricomincia daccapo. Entra Vladimiro”. L’ha sostituita con i due protagonisti sdraiati a terra, più esattamente sul pavimento di una struttura quadrata nera al centro del palcoscenico. In Beckett il rapporto fra Vladimiro ed Estragone è immediatamente stabilito, il primo tende per tutto il dramma alla verticalità e il secondo all’orizzontalità. Sono cose precise, hanno significati teatrali e filosofici non ignorabili, altrimenti si sta facendo un dramma di Terzopoulos.
Quanto al famoso albero, la prima didascalia dice: ”Strada di campagna, con albero”. All’inizio del secondo atto l’indicazione è che si sta “Il giorno dopo. Stessa ora. Stesso posto” e “L’albero è coperto di foglie”. Anche questo è un significato teatrale e filosofico non ignorabile. Qui invece l’albero è una specie di bonsai forse di plastica messo in un angolo del proscenio. Le pesanti manipolazioni del regista significano che per lui Aspettando Godot così come scritto dall’autore non è un dramma dal valore universale, dal significato atemporale. Si tratta di un’opinione discutibile.
Viene da domandarsi come mai gli eredi dei diritti di Beckett, notoriamente molto attenti nell’imporre le loro condizioni per gli allestimenti – usare i testi di Beckett nella loro integralità e rispettare le didascalie alla lettera – abbiano permesso al regista greco di mettere le mani nel dramma come un ortolano nella busta del minestrone. Simili sventramenti di capolavori, che non sono riduzioni, vengono fatti spesso dai registi d’opera che le chiamano “riletture”, come la Tosca fra i nazisti o il Nabucco ambientato, anziché nel Tempio di Re Salomone e nella reggia di Babilonia, in una palestra all’interno di una nave adibita a campo profughi con guardie aguzzine armate di mitra. Terzopoulos ha messo rumori di mitragliatrici, scoppi di bombe, sirene antiaeree; Pozzo si presenta con altri pugnali in mano, Lucky esce da sotto il quadrato come dalla torretta di un carrarmato e fa il suo monologo con l’isteria di un malato mentale affetto da trauma bellico. Nel teatro di prosa tuttavia, s’usa ancora di scrivere in locandina “tratto da” o una formula simile quando si tramesta con l’originale. Spesso avviene nel melodramma che se i registi decidono di cadere negli scandaletti, le orchestre e i cantanti invece si dimostrano eccellenti. E anche qui gli artisti mantengono un alto livello. Vetrano e Randisi, quando la regia li lascia in pace a fare Estragone e Vladimiro, sono sempre loro, due magnifici interpreti talmente poetici e commoventi che si dimentica tutto quello che sta intorno. Anche Paolo Musio (Pozzo), Giulio Germano Cervi (Lucky) e Rocco Ancarola (il ragazzo) fanno quello che chiede loro questa regia ma ci mettono un’arte e una tecnica che non si trovano dappertutto.
Non c’era bisogno di trasformare Aspettando Godot in un papocchione sulla guerra, il repertorio occidentale, comprese le tragedie e le commedie greche, rigurgita di drammi sul tema. Forse anche per il teatro drammatico, bisognerebbe far funzionare la famosa clausola che nel 1847 Verdi propose a Ricordi di inserire nei contratti di noleggio dei suoi lavori: “Allo scopo di impedire le alterazioni che si fanno nei teatri alle opere musicali, resta proibito di fare nelle mie opere qualunque intrusione, qualunque mutilazione, insomma qualunque alterazione che richiegga il più piccolo cambiamento, sotto la multa di cento franchi che io esigerò per qualunque Teatro ove sia fatta l’alterazione”.