“Ferito a morte” di Raffaele La Capria, adattamento di Emanuele Trevi, regia di Roberto Andò. All’Argentina di Roma
Il mare bagna Napoli stavolta
Non serve teatralizzare ciò che non nasce come teatro, meglio renderlo il più possibile “teatroso”. Fare qualcosa di diverso rispetto all’originale trasferendone però in scena la poetica e lo sguardo sul mondo. Ecco allora che bisogna ricredersi se si pensa che è inutile, o comunque molto difficile, portare in scena un romanzo, grande letteratura in questo caso, Ferito a morte di Raffaele La Capria, scomparso il 29 giugno scorso, a un soffio dai cent’anni, Dudù per chi lo conosceva, per chi faceva finta di conoscerlo e per chi avrebbe voluto conoscerlo.
In replica all’Argentina di Roma, l’adattamento è di Emanuele Trevi, la regia di Roberto Andò, le scene e le luci sono firmate dal bravissimo Gianni Carluccio, il suono è di Hubert Westkemper, talmente sofisticato che quando il protagonista Massimo informa di avere un orecchio pieno d’acqua pare di sentire tutto ovattato in sala, tutto lontano. Stavolta il mare bagna Napoli, sul grande schermo si frangono immense onde blu tutte rigate di schiuma bianca che certamente colerà sul palcoscenico. Sotto la superficie, l’incipit del libro dice che “La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile” e nuota verso di noi in platea, anche lei ha la testa corrucciata di una maschera cinese.
In questo romanzo si sente parlare di gente che si chiama Geggé, Bebbé, Mimì, Sasà, Guidino, Pupetto, Tonino, Cocò. Sulla città si stende il dopoguerra, ora si vive, la borghesia napoletana vocia, chiacchera, spettegola, chiassa, fa male all’orecchio, qui non si può più stare. “Viviamo in una città che ti ferisce a morte o ti addormenta”. Lo ripetono al pranzo in casa di Massimo: “Viviamo in una città che ti ferisce a morte o ti addormenta”. Lo ripetono ancora. Al circolo nautico si va per stare, si va per giocare, si trova al piano superiore della scenografia, dietro un ballatoio dove si muovono i figli della Napoli perbene riflessi da uno specchio deformante. Al circolo Italia del Remo e della Vela, con la sede nel porticciuolo di Santa Lucia, al lato di Castel dell’Ovo, l’estate d’una quarantina d’anni fa ma trenta dopo il tempo del romanzo: alla controra gente in conversari seduta attorno a un tavolo di bicchieri e tazzine di caffè, uno solo in piedi a reggersi da una ventina di minuti allo schienale di una sedia. “Peppino, ma accomodati”. “Nooo, mo’ che mi trovo”. Forse ancora oggi è tutto come prima, ma non è vero, Achille Lauro, sindaco, deputato, senatore, armatore, passato nel romanzo, nello spettacolo e sul golfo, è morto da tanto tempo, nel 1982, la flotta è colata a picco, ma prima ci sono stati decenni a disposizione per la corruzione, la speculazione edilizia, Le mani sulla città che La Capria ha sceneggiato con Francesco Rosi, nati uno appresso all’altro nel 1922, Dudù a ottobre, Franco a novembre, di modo che da ragazzini potessero andare insieme a tuffarsi dagli scogli di Posillipo e frequentare lo stesso liceo, l’Umberto I.
Massimo lascia la città, se ne va a Roma, perché i napoletani non vogliono assolutamente restare a Napoli però ci vogliono stare, quindi partono senza andar via e tornano, anche Massimo, Positano e Capri stanno lì, tutta la borghesia dei circoli ci va, come si vede Capri dalle terrazze di Posillipo, quando s’alza una leggera foschia di mare, nemmeno nei quadri dei vedutisti inglesi del Settecento. Tutti i discorsi dei napoletani, sulle amanti, le mogli, le corna, le carte, i soldi, la Costiera, la famiglia, i figli propri, i figli altrui, i figli dei nobili, ma proprio tutti i loro ragionamenti, prima o poi finiscono su Napoli. E un forestiero capisce, anche vedendo lo spettacolo, una macchina perfetta, un allestimento per esteti, leggermente freddo, ma fa così bene all’anima questo freddo non ghiacciato perché consente un po’ di distanza, un forestiero capisce che Napoli è una capitale. Succede tutto e non succede niente. Per essere una capitale, avere un palazzo del Parlamento non è sufficiente. Infatti da qualche anno Roma non è capitale, al massimo è rendita. Prodotto da Teatro di Napoli, Fondazione Campania dei Festival, Emilia Romagna Teatro e Teatro Stabile di Torino, lo spettacolo ha avuto a Roma sei repliche, la metà di quelle napoletane epperò, fatto rimarchevole, una in più di un’enorme megalopoli come Perugia, con una popolazione inferiore al solo centro storico capitolino. L’altra sera davanti al botteghino dell’Argentina, la gente litigava su chi era arrivato prima e aveva dunque precedenza in lista d’attesa. Povero teatro stabile cittadino, da anni ormai ferito a morte.
Il capolavoro di La Capria, premiato nel ’61 allo Strega, resta un romanzo, qualche aggiustamento tocca farlo, qualche trucco è necessario, ma a teatro come in amore, tutto è permesso, basta che funzioni. La spigola dalla maschera cinese rappresenta Carla, la ragazza amata da Massimo. Il giovane uomo “sta per tirare – sarà più di dieci chili, attento non si può sbagliare! – e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile”. La spigola passa lenta, come le occasioni, come s’allontana l’onda stanca dei nostri sguardi. Le donne tornano sempre, a Castel dell’Ovo arrivò esanime portata dalle onde, le stesse che di nuovo s’increspano sullo schermo, inesauste schiumanti una dietro l’altra, Partenope. Sirena, femmina con corpo di uccello o di pesce dal canto sublime, orrida e meravigliosa, baccante e amorosa a guisa di Napoli e d’un romanzo goloso d’uomini.
In scena sedici interpreti: Andrea Renzi (Massimo), Paolo Cresta (Gaetano), Giovanni Ludeno (Ninì), Gea Martire (la signora De Luca), Paolo Mazzarelli (Sasà), Aurora Quattrocchi (la nonna), Marcello Romolo (lo zio Umberto), Matteo Cecchi (Cocò), Clio Cipolletta (Assuntina), Giancarlo Cosentino (il signor De Luca), Antonio Elia (Glauco), Rebecca Furfaro (Betty), Lorenzo Parrotto (Guidino), Vincenzo Pasquariello (cameriere), Sabatino Trombetta (Massimo da giovane) e Laure Valentinelli (Carla).