“Hybris” scritto e interpretato da Antonio Rezza. Al Vascello di Roma
Molta cattiveria, poca ferocia
Antonio Rezza va in giro in mezzo ai suoi otto attori, più comparse che interpreti, per quasi tutta l’ora e mezza di rappresentazione trascinandosi una porta con la sua cornice. La sbatte decine e decine di volte, passa da una parte all’altra, la gira, la rigira, bussa, la apre, la chiude. È la porta della famiglia che si serra in se stessa; la porta sbarrata fra noi e il prossimo, spalancata fra noi e il nulla. Monologa senza sosta il testo che ha scritto, Hybris, in replica al Vascello di Roma. Si muove incessantemente, un maratoneta del palcoscenico. La sua è una prova fisica intensa al punto da sorprendere. Platea quasi esaurita l’altra sera dopo tre settimane di repliche, molti applausi finali e commenti assai favorevoli all’uscita. È innegabile che gli spettacoli di Antonio Rezza, firmati assieme a Flavia Mastrella, piacciono.
Anche chi non apprezza particolarmente l’assenza di metafora e l’esposizione praticamente diretta della bruttezza e dell’aggressività che Rezza cava dalla sua osservazione della società italiana, dovrebbe andare a vedere una rappresentazione se si incuriosisce di alcuni fenomeni della scena contemporanea. Può non dare nessuna risposta domandarsi per quale motivo il pubblico in sala si diverte quando per tre volte Mastrella mima un coito con un’attrice chiamandola mamma e ne sottolinea il significato incestuoso con la battuta: “Il figlio vuole rientrare a pezzetti da dove è uscito”. E quale ragione, ancora oggi, dopo decenni di sperimentazioni e provocazioni sul corpo degli attori, la visione di un Rezza che si spoglia e se ne va in giro nudo per la ribalta induce la platea a manifestare un moto di apprezzamento? A cosa? All’audacia? All’anticonformismo? Forse al nuovo, non essendo diffusa la memoria delle falloforie nella Grecia antica che secondo gli studiosi hanno dato nascita alla commedia.
Sono anni in cui evidentemente si tiene in grande considerazione il teatro dello squallore, squallore estetico, visto come denuncia della povertà materiale e spirituale che caratterizza ampi strati di popolazione, della violenza che si genera da condizioni di vita degradate, delle frustrazioni che nascono da rapporti umani marciti e da situazioni familiari claustrofobiche non solo psicologicamente ma anche spazialmente in appartamenti angusti, in stanze grandi come gabbie di criceti. Lo dice Mastrella stesso: “Noi siamo gente povera. Se ci togli la violenza, cosa ci rimane?”. “Quando arrivi tu, si sente subito puzza di suicidio assistito”. Le domande restano: al di là di alcune buone battute, gli spettatori apprezzano la denuncia o lo squallore? Condividono o si riconoscono? Per condividere un’affermazione sulla “gioia repressa dentro di me perché la sedia a rotelle sta sotto di te”, il pessimismo assoluto di un Emile Cioran nei confronti dell’essere umano non serve, è troppo alto, un po’ come versare un flacone di Chanel N. 5 su un cadavere in decomposizione. Corre una differenza fra una proposizione cattiva che però non si eleva al cinismo, non cattura il grottesco degli uomini, e una battuta realmente cinica e feroce. Rezza: “A me dei giovani l’unica cosa che mi addolora è che non riuscirò a vederli morire tutti”. Goethe: “Se è vero che la giovinezza è un difetto, ce ne correggiamo in fretta”. Il problema è la presenza o l’assenza della dissacrazione. Indicare il fango non equivale a far rotolare qualcuno nel fango. Il deficit di Rezza non è la cattiveria ma la ferocia. Ecco forse perché il pubblico applaude: possibile si sia disabituato al piacere crudele che può venire dal ferimento intellettuale di un avversario, dalla perdita di sangue della mente che l’eleganza di una frecciata sottile e velenosa come un aculeo di scorpione può provocare nel prossimo. Trova il suo godimento nella badilata: “Si può frequentare una persona solo perché in quel momento sta dove stai tu? Si può essere così miserabili?”.
Ad affinare lo spirito della collettività, a insegnare l’umorismo sarcastico e l’arguzia spietata non ci sono più i grandi moralisti classici, i filosofi libertini o i forgiatori novecenteschi di aforismi, epigrammi, calembours come Achille Campanile, Marcello Marchesi e Vittorio Metz, Ercole Patti, Leo Longanesi e ancora il dimenticato fulminante Sergio Saviane. Rezza: “Non lasciarmi solo come quando sto con te”. Ennio Flaiano, il secolo scorso: “Oggi ho lasciato la mia famiglia perché ero stanco di sentirmi solo”.