“Ifigenia in Aulide” di Euripide, regia di Alessandro Machia. Con Andrea Tidona e Alessandra Fallucchi. Al teatro Arcobaleno di Roma
La morte dell’eroe e la fanciulla
Euripide scrive Ifigenia in Aulide poco prima di morire nel 406 a.C. mentre la guerra del Peloponneso si trascina, con fasi alterne, ormai da un quarto di secolo e quando Atene è entrata in una crisi dalla quale non tornerà indietro anche se avrà ancora molto da dire. Platone morirà fra più di mezzo secolo (nel 348 circa) e Aristotele che verrà in città a studiare all’Accademia platonica, non è ancora nato. Però in questa magnifica tragedia tarda di Euripide si percepisce il decadimento di un’idea di polis e la trasformazione del potere da strumento di governo a mezzo per la soddisfazione di interessi personali. Vista da questa prospettiva, la tragedia ha come personaggio principale Agamennone – il re, capo degli Achei nella spedizione di Troia e padre di Ifigenia – quindi è principalmente l’attore che lo interpreta, Andrea Tidona, a sostenere gli intenti della regia di Alessandro Machia e il significato della messinscena (al teatro Arcobaleno di Roma). Allestire l’Ifigenia in Aulide è un atto di accusa giusto e opportuno di questi tempi in cui la bassezza codarda e infetta della classe politica si manifesta anche in quelle istituzioni dell’Unione europea che gli ingenui e i complici indicavano come sane.
Tidona potrebbe essere definito sbrigativamente un attore bravo, fatto noto, mentre è anche molto interessante per come costruisce un personaggio forte della tragedia greca riuscendo nell’operazione di non enfatizzare la recitazione, non classicheggiare, salvando però Agamennone dal rischio opposto di “snaturarlo nel naturalismo”, di renderlo un moderno, finanche uno di noi, cosa che non è. L’Agamennone di Tidona non appare solo debole, pavido e opportunista (di gente simile è pieno il mondo) ma è un re che cade, l’anima di sabbia ormai, le spalle troppo deboli per sostenere un epos. L’attore lo offre come un uomo alla fine del mondo eroico che lentamente cammina in un mesto tramonto del mito accompagnato dalla morte degli dèi. Un attore di questa caratura è di grande aiuto a una regia dall’evidente connotazione intellettuale che ha necessità di teatralizzare quanto più possibile i risultati di una riflessione sulla tragedia (proposta nella versione italiana di Fabrizio Sinisi) e sugli anni che stiamo vivendo, di rendere cioè azione la sua speculazione. In una regia siffatta, la protagonista femminile, colei che risponde ad Agamennone, è – almeno nella prima parte – la moglie Clitemnestra, la quale si ribella al destino di morte decretato dal padre per la loro figlia Ifigenia. L’indovino Calcante ha affermato che solo con il sacrificio della fanciulla alla dea Artemide, torneranno a spirare i venti che porteranno le navi achee bloccate dalla bonaccia verso Troia, verso la guerra. Il contraddittorio che deve produrre il conflitto necessario alla manifestazione del tragico è affidato ad Alessandra Fallucchi. La Clitemnestra dell’attrice è una madre, il suo furore nasce da un’angoscia di madre e l’attrice fa sentire una visceralità che commuove: evita di affidarsi ai facili effetti delle urla di disperazione e a forsennatezze da sofferenza ma comprime il dolore e lo stilla. Esprime l’atrocità della lotta d’una mortale, laica quasi ormai, contro l’immortale Artemide, prossima a morire nel lago ghiacciato della superstizione ma viva ancora abbastanza da pretendere sacrifici; ed interpreta la forza della donna che s’oppone al marito re pusillanime maschio assassino della figlia per impotenza, per mancanza di carisma e di autorevolezza nei confronti dei suoi soldati, i quali da lui reclamano il sangue della fanciulla per soddisfare la divinità.
Di tutt’altra natura la forza femminile di Ifigenia che prima non vuole morire, supplica il padre di risparmiarla con un monologo straziante e poi d’improvviso decide di sacrificarsi: “Se vuole prendere la mia vita, dovrei oppormi a una dea, io che sono mortale?”. Non più il vecchio maschio compie l’atto eroico ma la giovane femmina che trova così l’occasione estrema di entrare nella leggenda, nel mito, di farsi immortale un attimo prima che il tempo antico degli eroi e degli dèi si faccia passato della Storia umana. Il ruolo è difficile per la ventunenne Carolina Vecchia, attrice che non ha ancora espresso le sue potenzialità. Così il regista nelle sue note descrive il personaggio: “Accettando e decidendo la sua morte, Ifigenia si individualizza, esce dall’indistinzione diventando ‘qualcosa’ nella morte imminente, un comandante lei stessa”. Machia vuole molto dall’attrice e lei gli dà se stessa, non ancora ‘qualcosa’.
Questa regia di attori che non s’appaga di montaggi di scene, entrate e uscite, movimenti e toni corretti, e addirittura in certi momenti rischia il vuoto di scena e la caduta di ritmo tanto si concentra su un teatro interpretativamente intenso, esprime una sua linea di costruzione antipsicologica e simbolica dei personaggi, non caratteri ma emblemi, e riesce a mantenerli nel solco del teatro (laddove rischierebbe di cadere nel calligrafico o nel moralismo). Achille, al quale Agamennone ha fatto credere d’essere il promesso sposo di Ifigenia, non è più il piè veloce, il semidio nato dal mortale Peleo e dalla dea marina Tetide, l’invulnerabile comandante dei Mirmidoni ma un mirmillone ormai, un gladiatore da combattimenti nell’anfiteatro Flavio al quale un Roberto Turchetta bravo affibbia una pesatezza terragna, lontana prefigurazione d’un capitano spagnolo di mille anni dopo, soldatone un po’ ridicolo che non riesce a farsi ubbidire dalla sua soldataglia, anzi manca poco che lo menino. A Paolo Lorimer è affidato il ruolo di Menelao, fratello di Agamennone e sposo di Elena per la quale si combatte la guerra di Troia. Menelao ha uno scontro dialettico con il re all’inizio del dramma e da questa scena incomincia a svilupparsi la tragedia come metafora, come discorso sul declino politico della città e sullo svuotamento etico degli individui. Il coro è formato da Lorenza Molina, Elisa Galasso, Carlotta De Cesaris e Chiara Scià.