“Edipo re, una favola nera”, spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Al Parioli di Roma
L’abito non fa il personaggio
Pare che Sofocle sia stato uno bravino nel mestiere suo, anche Aristotele nella Poetica ne parla molto bene. Tuttavia, se per caso il filosofo di Stagira non fosse la mente eccelsa di cui si vocifera in giro, un suo giudizio varrebbe pochino. Allora si starebbe davanti a un complotto degli sciocchini. Se invece Aristotele era bravo a pensare, allora Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, autori e registi dello spettacolo in scena al Parioli di Roma, avranno certamente un’ottima ragione – un’interpretazione inedita, una visione nuova, un semplice colpo di genio come quelli di Shakespeare quando riscriveva novelle italiane – per tramestare nell’Edipo re e proporlo sotto un altro titolo, Edipo re, una favola nera.
La tragedia di Sofocle è già una favola nera, come Il malato immaginario racconta certamente delle vicissitudini di un ipocondriaco. Il capolavoro sofocleo è la prima opera nella storia del teatro che mette in scena un’indagine poliziesca su un caso di cronaca nera, un omicidio, più precisamente un parricidio, seguito da un secondo delitto, l’incesto. Lo straordinario talento dell’autore aggiunge un’altra magnifica trovata: il colpevole e l’investigatore sono la stessa persona. Ovviamente il finale è noto da duemilaquattrocento anni quindi dal lato della suspense non si può pretendere nulla ma la tragedia continua ad essere rappresentata così come è stata scritta dal 430 – 420 a.C. circa, o forse 411, per la ricchezza di significati ovviamente ma anche per il meccanismo della tragedia e la dinamica dell’inchiesta. Metterla in scena significa ogni volta rimemorare a noi stessi come si costruisce un capolavoro.
Ad onor del vero, Bruni e Frongia stendono il loro copione assemblando assieme a quello di Sofocle vari altri Edipi di autori i cui testi meriterebbero di essere rappresentati così come sono stati scritti: Seneca, John Dryden, Jean Cocteau (La macchina infernale). C’è anche Thomas Mann (che non un dramma ma un romanzo produsse, L’eletto, ispirato al mito edipico), e durante la rappresentazione si incontrano La Morte della Pizia di Dürrenmatt, un po’ di Murakami e Greek di Steven Berkoff che rimaneggia il mito e lo trasporta nell’era della Thatcher. I due registi e autori riassumono la trametta, come la chiama il lessico giornalistico, e si concentrano sulla valorizzazione dei costumi di Antonio Marras: citazioni dei Mamuthones sardi e richiami dark, reminiscenze orientali, forse giapponesi da teatro kabuki, e maschere sciamaniche (di Elena Rossi). La Sfinge si presenta in kilt scozzese con unghie da uccello e una cresta che sembra fatta con la saggina delle scope. Molto belli e scenografici i due enormi abiti che scendono sul re e la regina, Edipo e Giocasta, e li imprigionano a indicare che il fato è una gabbia dalla quale non si può fuggire.
Tuttavia, sarebbe ingiusto sostenere che l’allestimento è pensato in funzione dei costumi, come una specie di sfilata con recitazione teatrale. Ci sono gli attori. Valentino Mannias nel ruolo del titolo a un certo momento sorprende con un salto da break dance e tutto lo spettacolo è impregnato di maschia fisicità (favorita dal taglio dei costumi). Infatti Giocasta è interpretata da un uomo, Mauro Lamantia. Scelta legittima però Giocasta madre, moglie e regina oggi che non vi è interdetto per le donne in scena può anche essere restituita alla sua natura femminile o, alla peggio, alla sua funzione di trappola muliebre per maschi accecati e per punizione condannati alla cecità. Bruni ha spiegato in un’intervista che “il cast maschile e le maschere servono per creare distanza con la realtà”.
Alla fin fine però, il cuore del teatro sono gli attori e si può trovare ogni tipo di soluzione registica, inventare costumi ed effetti visivi, rimaneggiare testi, ma se il comparto interpretazione lascia a desiderare, lo spettacolo cade. La scena così attentamente costruita della Sfinge e di Edipo che risolve il famoso enigma, è tutta un artifizio ma poi i suoni gutturali che manda Ferdinando Bruni nel ruolo del mostro a dimostrare la disperazione per la sconfitta, paiono imitazioni degli attori di recite plautine in estiva. Così come i coretti a due, le esclamazioni enfatiche, i monologhi tonitruanti. In scena sono in quattro (assieme ai citati, anche Edoardo Barbone), ognuno con più ruoli, da tre a sei, salvo Mannias che fa solo Edipo. Forse i cambi sono troppi e complicati, assorbono energia e concentrazione. Però non basta un colpo di break dance a riprendere il filo drammatico.