“Diario di un inadeguato” scritto e interpretato da Emanuele Salce in scena con Paolo Giommarelli. Regia di Giuseppe Marini. Alla Cometa Off di Roma
A cena con i giganti
Uno dei passaggi più divertenti è il racconto di un flirt di Emanuele Salce, una ragazza australiana che invitata a cena in famiglia chiede a Vittorio Gassman: “Tu che lavoro fa?”. “Nulla – risponde sarcastico il mondiale divo – sono in pensione”. E lei, sicura: “Tu bellissima faccia. Tu potevi fare attore”.
In scena alla Cometa Off di Roma, Diario di un inadeguato è il seguito, o il sequel come dicono i cinematografari e televisivari d’oggi, di Mumble mumble, spettacolo che Salce ha scritto e portato in scena per anni.
A chi non fosse addentro alle vicende delle famiglie di spettacolo, è necessaria una premessa: Emanuele Salce è figlio del grande regista e attore Luciano e dell’attrice Diletta D’Andrea che sposò in seconde nozze Vittorio Gassman. Quindi è nato e vissuto nel cuore del miglior cinema italiano ed è proprietario di una enorme valigia di storie, aneddoti, curiosità, fatti e personaggi. A portare in scena momenti di un passato così ricco, il rischio potrebbe essere dato dalla retorica della nostalgia oltreché da un’insidia più sottile: il peso dei giganti schiaccia nella vita e sulla scena. Avere avuto a che fare con loro per buona parte della propria vita non è agevole. Raccontarli in uno spettacolo, ossia sul terreno della loro grandezza, significa confrontarsi. Più complicato essere il figlio di Einstein che essere Einstein, strada sgombra verso lo studio dello psicanalista, si trova parcheggio facilmente a cento euro l’ora. Ma il gioco dell’inadeguato è un ottimo stratagemma per sottrarsi al peso dei giganti e osservarli da lontano, da dove tutto appare più leggero. L’impacciato si trae dall’impaccio diventando uno spettatore – narratore, un cronista ironico e disincantato, anche affettuoso nei confronti di questi macigni capaci di rotolare sulla psicologia di un ragazzo con l’indifferenza del grande artista per la sensibilità altrui. Grandi artisti che poi appaiono pure un po’ borghesi, come Salce spiega ad inizio spettacolo raccontando del giorno in cui la sua australiana arriva a Roma proprio in coincidenza con il funerale di una zia. Chissà come la prenderanno in famiglia l’irrispettosa partecipazione alle esequie con un amorazzo al fianco. Invece nulla è serio, neanche la forma, e il contegno una recita; andare dall’analista prima di recarsi in chiesa si rivela superfluo, gli psi mettono le cose sempre su un piano terapeutico. La vita invece basta guardarla, al massimo è un’anatra all’arancia, più raramente un federale.
E siccome la vita è teatro, il racconto dell’inadeguato è teatro nel teatro, procedimento grazie al quale il suo distanziamento si perfeziona. Il pubblico non assiste a uno spettacolo ma allo spettacolo delle prove e il compagno di scena di Salce, Paolo Giommarelli, interpreta, anzi scimmiotta la figura del regista e ne prende in giro i tic intellettuali e le presunzioni artistiche.
La disavventura, il pasticcio, l’inciampo, scombinano l’esistenza d’un uomo timido, gentile e maldestro nei rapporti con gli altri, afflitto da tendenze punitive verso se stesso, buttato dalla sorte in un mondo di gente che per mestiere si esibisce, si impone ed espone il proprio corpo al pubblico. Cosa può fare il figlio di Salce e figliastro di Gassman per essere al contempo la rana e lo scorpione, la rana che si punge da sola? Farsi scritturare da una compagnia teatrale e atrocemente affondare come attore. Quest’ultima è probabilmente l’unica bugia dello spettacolo. È vero invece che Salce è un bravo attore. Intanto, come dicono i soliti cinematografari romani o romanizzati, c’ha la faccia giusta. E poi ha un suo stile originale, non è né un Woody Allen più alto né un Walter Matthau più basso. È lui. Ironico, autoironico, poetico.
Giuseppe Marini alla regia ha una mano lieve, nascosta, ma sicura e decisiva: dà i tempi giusti, organizza il ritmo in una successione di alti e bassi, arriva fin quasi a ingannare lo spettatore accennando una virata verso il drammatico, poi di colpo cambia passo e va a sfiorare il grottesco. Senza toccarlo, di modo da evitare artifici retorici, anche quello del maldestro che ammette la propria goffaggine, anzi la esalta, per giustificarla. Come se la confessione fosse un’assoluzione. Diario di un inadeguato è appunto un diario, suggerisce la regia, non una confessione.