“Il crogiuolo” di Arthur Miller regia di Filippo Dini anche interprete assieme, fra gli altri, a Manuela Mandracchia. Al Quirino di Roma
Gli inquisitori non muoiono mai
Sicuramente non c’è tutto però c’è molto nel dramma di Arthur Miller, Il crogiuolo, al Quirino di Roma con la regia di Filippo Dini: il tradimento, la vendetta, la delazione, la codardia, il riscatto, l’odio, l’amore. Ma sovrana su ogni sentimento, su ogni stato d’animo, regna la paura.
Della paura si nutrono le dittature, le teocrazie, le oligarchie, le mafie, i nazisti, i guerrafondai, i calunniatori, gli sfruttatori, i fascisti, i papponi, gli uomini che uccidono le donne, eccetera, e tutti coloro che per potere o per soldi, intendono rovinare la vita alla gente. Di tutte le malerbe che gli esseri umani seminano per la loro disgrazia, basterebbe estirpare la sola paura e il mondo da inferno si trasformerebbe subito in purgatorio. È la geenna degli uomini, non di Satana, quella da cui provengono i diavoli del Crogiuolo, scritto da Miller nel 1953, quando fu denunciato dal regista Elia Kazan alla Commissione per le Attività Anti-Americane come comunista. Gli proposero di denunciare a sua volta qualcuno per evitare di essere iscritto nella lista nera e di vedersi affibbiata una multa in alternativa a un mese di prigione. Il drammaturgo rifiutò l’accordo.
Erano gli anni del maccartismo, la caccia alle streghe rosse. Miller non scrive direttamente un dramma sul maccartismo, ma fa un’operazione più teatrale e metaforica, più libera anche perché svincolata dalla necessità cronistica. Racconta delle famose streghe di Salem, un villaggio nella contea di Essex, Massachusetts, che per un anno fra il febbraio 1692 e il marzo 1693, fu il teatro di una spaventosa isteria di massa: accuse di stregoneria, persecuzioni, arresti, processi, condanne a morte ed esecuzioni capitali. Morirono impiccate 19 persone, quattordici donne e cinque uomini più uno che per essersi rifiutato di testimoniare fu condannato alla fine atroce dello schiacciamento sotto blocchi di pietra.
Questa storia, che sta nella casistica dei più grandi orrori giudiziari di cui s’abbia memoria, ha avuto una tale eco nella storia nordamericana che da più di tre secoli sull’argomento si scrivono libri e si fanno film. Miller ha premuto la sua penna su questo punto molto sensibile della coscienza nazionale statunitense per mettere in guardia daii fenomeni autodistruttivi della ferocia collettiva. Il 1692 spiega il 1953 e i nostri anni immersi nel bigottismo, nelle censure, nelle condanne sui social divenuti processi di piazza imbastiti dalla criminalità degli haters e su giornali e talk-show che macellai camuffati da giornalisti trasformano in mannaie.
Fra la vicenda storica e l’opera di Miller corrono alcune differenze ma i puristi della storiografia non se n’abbiano a male, la parabola è potente, densa, quattro atti magnificamente dialogati, personaggi disegnati con inviabile maestria drammaturgica e precisione psicologica, azione per tre ore di rappresentazione che scorrono senza tempi morti. Grazie anche alla regia di Filippo Dini che monta uno spettacolo affollato come deve essere una rievocazione di comunità paesana, giustamente naturalistico perché questo è un dramma di Miller e teso, anche troppo teso: si urla tanto. In teoria, il regista è pienamente giustificato dal fatto che sta mettendo in scena una situazione di isteria di massa, però troppo naturalismo a teatro (contrariamente che al cinema) finisce per apparire non verosimile: se si distrugge una macchina sullo schermo è un film d’azione, se lo si fa a teatro diventa un’esagerazione. Però il gruppo di interpreti è fortemente concentrato e dà l’impressione di capire perfettamente il significato attuale del dramma. Quindi ogni attore è consapevole di quello che sta dicendo, conosce le ragioni del suo personaggio, lo imposta psicologicamente e caratterialmente e ne qualifica le intenzioni. Sono tutti ben calati nelle loro parti e si mettono al servizio di un allestimento proposto al pubblico con una motivazione politica precisa: la critica all’attuale momento storico, così pericoloso per la libertà di pensiero e così conforme alla feroce legge del gregge che condanna a morte, morte fisica e non solo sociale, l’individuo indipendente di spirito che dissente. Forse la differenza rispetto a periodi passati di violento conformismo sta nel fatto che oggi i branchi sono più d’uno, quindi i caporali di giornata si sono moltiplicati. Ma se le parole d’ordine d’ogni masnada adesso confliggono e si contraddicono, uno è il comma 22 di questi anni applicato per disonorare, diffamare, assassinare moralmente: un essere umano può chiedere di essere esentato dalle missioni di bombardamento del prossimo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di bombardamento non è un essere umano.
Filippo Dini interpreta John Proctor, un contadino concreto e gran lavoratore, svogliato nella sua devozione religiosa, frequentatore episodico della chiesa la domenica, fiducioso nella ragione pratica. L’attore deve portare il personaggio da una condizione di meschino fedifrago – tradisce la moglie Elizabeth con la giovanissima serva Abigail – a una condizione eroica che lo porta sul patibolo. Ha una voce duttile, Dini, profonda, un fisico di forte presenza scenica e una padronanza del ruolo che gli consentono di giocare fra rudezza e cuore, fra la rozzezza d’un rustico che s’accoppia sulla lettiera delle sue bestie e una bontà terragna che lo giustifica nel pentimento per l’adulterio e nella fatale scelta etica finale. La moglie è affidata a Manuela Mandracchia che di fronte a un interprete emozionale come Dini, abbandona un certo ronconismo che l’ha caratterizzata in passato, ronconismo che in sintesi rifiuta la psicologia e trasforma il personaggio in macchina antropica, e si pone sulla stessa onda, su un piano interpretativo coerente con la prova del prim’attore. Mandracchia, attrice raffinata che in teoria mal si vedrebbe nel costume d’una villica, dimostra le proprie capacità tecniche in una prova tattica più che strategica – perché Elizabeth subisce l’azione, non la muove – e si concentra sui dettagli interpretativi, usa la propria raffinatezza di attrice al servizio del personaggio, inteso anche come carattere, portandolo da un piano di contadina a quello di donna, donna innamorata, dignitosa nella sua morale e capace di perdono. La serva Abigail che è stata licenziata in tronco dalla signora Proctor e mollata da John, incarna la vendetta e va caricata d’un rancore pietroso che Virginia Campolucci restituisce scegliendo una strada un po’ facile ma non priva di resa interpretativa, cioè una nervosità biliosa evidentemente sollecitata dalla regia. È Abigail ad accendere l’azione dando inizio a una catena di delazioni e accusando Elizabeth di stregoneria.
Il padre di Abigail, il reverendo Samuel Parris, che ambiva a dire messa in una cattedrale e si ritrova in una chiesetta di legno d’un villaggio sperduto del Massachusetts, è un tipo di codardo nevrastenico interpretato da Andrea Di Casa con una bassezza prelatizia rimarchevole, così come Nicola Pannelli fa il vicegovernatore Danforth, praticamente un secondo ruolo maschile nel terzo e quart’atto, carattere di inquisitore forcaiolo perfetto per definire la criminale ingiustizia della giustizia quando serve la superstizione, il fanatismo e il pregiudizio. Ma sotto questa finta giustizia scorrono anche interessi concreti che strumentalizzano la disgrazia altrui per il proprio tornaconto materiale. Il ricco del villaggio che briga per ampliare l’orrore con l’obbiettivo di impossessarsi di terre altrui rappresenta l’ignominia del capitalista, il delinquente legalizzato, il mascalzone glorificato dal mito scellerato del self-made man.
Il grigio e il nero sono i colori della scenografia, metallici sono i grandi pannelli che ruotano per i cambi di scena, ferrose le sedie. Poi un letto, un tavolo, poche cose, è la rigidità delle anime povere che le luci di Pasquale Mari illuminano di livido.
Fatou Malsert attrice e vocalist interpreta Tituba, schiava nera del reverendo Parris, quindi la prima ad essere accusata dai coloni bianchi, poi canta Seven Nation Army dei White Stripes accompagnata alla chitarra elettrica da Aleph Viola: “Li manderò via / Un’armata delle sette nazioni non poteva trattenermi / strapperanno via tutto / prendendosi il loro tempo per attaccarmi alle spalle”. È con la canzone sulla Guerra fredda di Sting del 1985, Russians, che Dini conferma senza ombra di dubbio che con Il crogiuolo sta parlando di oggi: “In Europa e in America / C’è una crescente sensazione di isteria”. Lo spettacolo si chiude su una canzone dell’Ottocento, House of rising sun cantata da Joan Baez, Nina Simone, Bon Dylan e altri, e ripresa con successo mondiale dagli Animals nel 1964: è la storia di una vita buttata, non si chiarisce cos’è la “house”, forse un bordello o una prigione. “C’è una casa a New Orleans / La chiamano “sole nascente” / Ed è stata la rovina di molti poveri ragazzi / E, oh Dio, so di essere uno di loro”.
Tutti da citare gli artisti in scena. Oltre ai già menzionati, sono: Gloria Carovana, Pierluigi Corallo, Gennaro Di Biase, Didì Garbaccio Bogin, Paolo Giangrasso, Fulvio Pepe, Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi.