“Finzioni” da Jorge Luis Borges, uno spettacolo di Anton Giulio Calenda, Alessandro Di Murro anche regista e Tommaso Emiliani. Con gli attori del Gruppo della Creta. Al teatro Basilica di Roma
Il castello delle scelte perdute
Ci si può rivolgere a Søren Kierkegaard per il problema filosofico della scelta che nel suo pensiero è centrale. Ad ogni momento della nostra vita siamo di fronte a un bivio e costretti a scegliere. Saltando a piè pari vari ragionamenti del filosofo danese, per esempio il rapporto fra responsabilità e libertà, si arriva ad affermare con lui: “La scelta stessa è decisiva per il contenuto della personalità; con la scelta essa sprofonda nella cosa scelta, e quando non sceglie, appassisce in consunzione”. Leibniz invece, come universalmente noto, sostiene che Dio ha scelto, fra gli infiniti mondi presenti nella sua mente infinita, il migliore dei mondi possibili. Si può andare avanti così per anni, per una vita, perché i concetti di possibilità e di scelta percorrono tutta la filosofia occidentale dai greci ad oggi.
C’è una battuta nello spettacolo in scena al Basilica di Roma, Finzionii, tratto dall’omonima notissima opera di Jorge Luis Borges e scritto da Anton Giulio Calenda, Alessandro Di Murro (anche regista) e Tommaso Emiliani, che recita: “Scegliere la propria strada significa uccidere la strada opposta, un altro futuro. Io sono un macellaio di scelte”. Quindi tocca fare una scelta sapendo che si è assassini di possibilità: andare con Kierkegaard dietro alla metafisica di Borges; oppure usare il Leibniz della distinzione fra la possibilità logica e la possibilità reale per orientarsi nei labirinti dell’argentino; o semplicemente disinteressarsi di tutto e perdersi per sempre nelle stanze infinite della fantasia borgesiana. Queste sono solo tre ipotesi sulle migliaia possibili. Ci sono più cose nella mente di Borges, Orazio, di quante ne sogni tutta la tua filosofia.
Lo scrittore portegno è una macchina generatrice di dubbi, quindi di domande senza fine. Teatralmente è una trappola, un enorme castello riempito dalla sua sconcertante erudizione. Fare teatro, che è un’operazione di scelta, con l’opera di un autore capace di immaginare biblioteche infinite necessita della capacità di prevedere, accettare e realizzare in scena l’incompiutezza come poetica. È possibile sostenere che a teatro Finzioni non funzioni perché mettere in scena finzioni di finzioni è una possibilità impossibile, un labirinto senza uscita. Verso la fine dello spettacolo uno dei personaggi dice: “Sono circondata da persone invisibili, tutte le persone che potevano essere e non sono state”. Domanda: esiste un cimitero infinito delle persone che potevano essere e non sono state? E se scegliere significa anche scegliere in una molteplicità innumerevole di se stessi, dove si trova la necropoli interminabile nella quale giacciono tutte le nostre altre personalità irrealizzate? Per dirla teatralmente, tutte queste persone invisibili evocate dal personaggio come condizionano l’azione? O esse appartengono solo alle parole, cioè alla letteratura? Perché è noto almeno dai tempi di Shakespeare che anche gli spettri agiscono in scena.
Questo è il caso classico che dimostra quanto è difficile mettere in scena la letteratura, in particolare di Borges, così simbolista e paradossale. Siccome non si riesce a trasformarla in drammaturgia, ci si affida alla visualità. E il regista Alessandro Di Murro trova immagini sceniche a volte sorprendenti, addirittura riesce in questa situazione complicata a montare passaggi umoristici. Si tratta però di effetti. Strategia di comunicazione e non strategia poetica. La strategia di comunicazione, ossia il come dire, dovrebbe stare sotto il cosa dire e non sostituirsi ad esso. Altrimenti si rischia di ripercorrere alcuni vicoli ciechi della vecchia sperimentazione anni Ottanta, quella che all’epoca veniva chiamata “nuova spettacolarità”. Va detto che anche la migliore ricerca italiana, quella anni Sessanta-Settanta, viene evocata. Ma quando uno degli attori fa il personaggio di Maradona, ci si chiede: questo calciatore argentino, nipotino di Carmelo Bene, come ha fatto a capitare nella scena di Finzioni? Siccome l’allestimento è costruito come una successione di scenette e appare una specie di varietà caotico stipato di borgesismi (ma non di borghesismi), molte sono le domande demenziali che la rappresentazione suscita: se la mappa è grande quanto il territorio, io esisto perché qualcuno mi sta sognando? Avelino Arredondo, l’assassino del presidente uruguaiano Juan Idiarte Borda, era al corrente del concetto pitagorico di trasmigrazione delle anime? Che rapporto c’è fra una domestica mulatta e l’aleph, prima lettera degli alfabeti fenicio ed ebraico? Un buon spettacolo è sempre una macelleria di scelte ma ciò che resta deve parere una collana di perle tenute insieme da un filo. Le grandi corna di toro indossate da un attore suggeriscono per associazione di idee che dopo avere ucciso il Minotauro, Teseo esce dal labirinto grazie a qualcosa di sottile, proprio un filo. È il filo del racconto.
In scena gli attori del Gruppo della Creta Matteo Baronchelli, Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Lorenzo Garufo, Amedeo Monda e Laura Pannia.