“Bazin”, uno spettacolo di Giancarlo Sepe. Con, fra gli altri, Pino Tufillaro e Margherita Di Rauso. Alla Comunità di Roma
La Francia, il cinema, l’amore
“Sono Hervé Bazin e questo è il mio ultimo giorno di vita”. È La prima battuta dello spettacolo di Giancarlo Sepe, Bazin, sul grande critico cinematografico francese André Bazin, fondatore dei Cahiers du cinéma, morto a 40 anni nel 1958. Però Pino Tufillaro ha detto Hervé, non André, l’altra sera al teatro La Comunità. Forse l’ha detto, forse no, forse s’è sentito ma non era vero, comunque lapsus o illusione sonora, è la fluorescenza della Francia che s’espande per tutta la rappresentazione: i film di René Clair con il popolo di Parigi e i fantasmi, i maghi, le apparizioni sovrannaturali come le immagini teatrali di Sepe, chissà da quale iperuranio scendono; Marcel Carné, il porto delle nebbie, l’amore fra Jean Gabin e Michèle Morgan, la passione, l’odio, l’omicidio, il ballo della vita che sempre si ritrova in uno spettacolo di Sepe, e gli enfants du paradis naturalmente, il teatro nel cinema e il cinema nel teatro. Appare un aviatore, forse è Jean Renoir pilota di guerra nella 14-18, è sua La grande illusione che comincia con il capitano Boëldieu e il tenente Maréchal abbattuti da un asso dell’aviazione tedesca. C’è tutta questa Francia nello spettacolo, quella che lo spettatore trova o che desidera.
Hervé Bazin invece, lo scrittore, da ragazzo venne espulso dall’accademia militare. Tutto il contrario di Renoir e nessuna parentela con André. E salvo il suo fantasma sonoro, in null’altro entra nello spettacolo. Però scrisse Vipère au poing (Vipera in pugno), un magnifico romanzo contro sua madre, da lui chiamata Folcoche (contrazione di “folle”, pazza, e “cochonne”, maiala), che diventò un film di Philippe de Broca, il quale fu l’aiuto di Claude Chabrol e François Truffaut, usciti dritti dritti dai Cahiers di André. Tout se tient, dicono i francesi, tutto si regge. Sul fondo scena uno schermo bianco sul quale il regista non proietta niente. Il suo cinema della mente è sulla scena. Lo schermo bianco è un invito allo spettatore a fare cinema interiore con le visioni dello spettacolo e immagini di immagini. Nella testa di André che questa sera muore senza vedere la sua invenzione, la Nouvelle Vague, si sentono canzoni francesi, passano sale da ballo per danzatori indifferenti alla sua angoscia non di morire, ma di dover lasciare il cinema, no al montaggio, sì ai campi lunghi, ai totali, ai piani sequenza, no all’oscenità di rappresentare la morte e la “piccola morte” (l’orgasmo). È il ballo delle idee che si vede in scena e delle visioni cinematografiche, le più novecentesche delle novecentesche, inquadrature teatrali l’una dietro l’altra, contro la logica del montaggio, contro la spiegazione della trama e il principio di causalità. Niente è più necessario dell’ordine nella traboccante stanza della memoria di Sepe. Ogni gesto è preciso, ogni suono è giusto, ogni luce è perfetta, impeccabile la disciplina dei suoi attori, la loro sincronia senza fallo: il rigore supremo nella costruzione delle geometrie sceniche e nella direzione degli interpreti è come l’accuratezza del marinaio che mantiene gli occhi fissi sulle stelle, è lo strumento di Sepe per realizzare i suoi sogni teatrali. Dalla gabbia di ferro delle sue regie nasce la libertà dello spettatore di guardare lo spettacolo e di pensarlo come vuole, di aprirlo, schiuderlo, intravvederlo, spalancarlo, rigirarlo nella propria mente seguendo il regista e rincorrendo se stesso. Lo spettatore pensi quello che vuole, un pensiero dopo l’altro, le teorie cinematografiche di André, l’apparizione sonora di Hervé se la sente, i cineasti aviatori o i letterati piloti come Romain Gary oppure Antoine de Saint-Exupéry per il quale “scrivere o volare, è una sola cosa”. Come fare teatro.
Magnifico Pino Tufillaro, non solo un attore ma un interprete che sintetizza l’idea registica; molto brava Margherita Di Rauso (Janine, moglie di Bazin) deuteragonista d’un uomo che muore; gli altri formano un collettivo che si muove all’unisono come un antagonista: Giuseppe Arezzi, Marco Celli, David Gallarello, Claudia Gambino, Francesca Palucchi, Federica Stefanelli, Guido Targelli. A saper fare i costumi di uno spettacolo simile, firmati da Lucia Mariani, non devono essere in molti. Luci di Roberto Di Maio. Fondamentali, come sempre in uno spettacolo di Sepe, le musiche di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team.