“Tebe al tempo della febbre gialla”, testo e regia di Eugenio Barba, uno spettacolo dell’Odin Teatret. Al Vascello di Roma
La guerra e le nozze mistiche del teatro
Fondamentale è frequentare i musei. Per molti motivi, alcuni dei quali sono: sapere cosa è stato fatto in passato, trarre ispirazione per il futuro, non ripetere il già visto credendo (o peggio: pretendendo) di averlo inventato oggi. E magari, per quanto riguarda lo spettatore, evitare di farsi truffare da mezzi artisti che spacciano per nuovo il vecchio. Se si potesse mettere in una galleria d’arte moderna, l’ultima messa in scena di Eugenio Barba e del suo Odin Teatret, Tebe al tempo della febbre gialla, andrebbe collocata nelle sale della collezione permanente.
Questo spettacolo è una sintesi di un tipo di ricerca, di un modo di fare teatro e di pensarlo come pratica collettiva al centro della civiltà, di un’idea di laboratorio dell’attore che appartengono al Novecento e che da Jerzy Grotowski si ramificano in una molteplicità di esperienze, alcune grandiose, Peter Brook per esempio, scomparso l’estate scorsa. Ora, al di là di questioni tecniche e teoriche – il teatro povero, il corpo dell’attore santo, i risuonatori, l’antropologia teatrale – che molti buoni libri hanno analizzato e molti pessimi maestrini di scuolette d’arte drammatica hanno usato come vuoto lessico autopromozionale, il campo privilegiato d’intervento di questa tradizione scenica è la mistica. L’esperienza mistica può essere trascritta solo in termini metaforici, simbolici, allusivi. Paradossali e vitali le nozze della mistica con la scena, dell’iniziazione individuale con la ricerca collettiva. Fallire è inevitabile, fallire nell’irrealizzabile è il segno dell’arte. L’atteggiamento spirituale di Barba e degli attori Kai Bredholt, Roberta Carreri, Donald Kitt, Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley, che sono uno, che sono l’Odin, intende concretizzarsi in atteggiamento teatrale. Ecco perché non ha molta importanza intendere il greco antico, l’idioma dello spettacolo (ma è cacofonico chiamarlo spettacolo, si tratta piuttosto di phàinein, di un manifestarsi). Il significato non conta, conta il significante, direbbe un linguista, l’apparizione fonica delle parole, il loro suono arcaico, la vibrazione, l’onda sonora che parla all’atman, l’anima individuale, o il principio cosciente, il soffio del vento nei Rigveda. Molto spesso durante la rappresentazione si ascolta un fonema emesso dagli attori che somiglia all’om, la sillaba sacra sanscrita che ricorre all’inizio delle preghiere indù e ha forza d’invocazione solenne, di affermazione, di benedizione, di rispettoso assenso. Come l’amen che in ebraico vuol dire “così sia”, “in verità”.
Questo è un mondo teatrale dalla connotazione ritualistica, disposto fra due ali di pubblico sul palcoscenico, e non si affeziona alla frontalità della scena occidentale. Si potrebbe sostenere con buona ragione anche storica che il teatro non è rito (ma eventualmente il rito è teatro) così come noi, che apparteniamo alla linea evolutiva greco-giudaico-cristiana, lo facciamo da venticinque secoli. Però il sacro è un valore trascendente dell’immanente concreto, altrimenti è chiacchiera; quindi Barba sa perfettamente che il teatro è un campo immutabile in cui si svolge un’azione, ossia avviene una mutazione.
Vale la pena citare Georges Ivanovič Gurdjieff (Alexandropol, in data imprecisata fra il 1866 e il 1877 – Neuilly-sur-Seine, 29 ottobre 1949), filosofo, mistico e maestro spirituale armeno molto studiato da Grotowsky e da Peter Brook, conoscitori profondi di religioni e dell’Oriente indiano. Nel 1979 Brook trasse un film dalle memorie di Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari. Il filosofo e storico delle religioni Elémire Zolla scrisse: “Il libro è l’autobiografia picaresca e iniziatica d’un sommo buffone e d’un sottile maestro esoterico, di un truffatore ineguagliabile e d’uno studioso discreto, ostinato: la più difficile ed esilarante delle mescolanze”. Il massimo allievo del mistico armeno, P.D. Ouspensky, riporta in Frammenti di un insegnamento sconosciuto, una riflessione del suo maestro: “Vi è la guerra in questo momento. Cosa significa? Significa che molti milioni di addormentati si sforzano di distruggere molti milioni di altri addormentati. Si rifiuterebbero di farlo, naturalmente, se si svegliassero. Tutto quello che accade attualmente è dovuto a questo sonno”. È il sonno dello spirito, ovviamente, assai più buio dell’intelletto dormiente. Il teatro è sempre teatro contemporaneo, è un modo trovato dagli uomini di svelare l’illusione del tempo. L’antico ciclo tebano – la guerra fra Eteocle e Polinice, i due figli di Edipo, l’ultima battaglia, la punizione di Antigone, la Sfinge, Creonte, Tiresia – avviene ora, oggi, fra le due ali del palcoscenico e della città, dove siamo noi uomini e donne, ad osservare ancora una volta noi stessi, al contempo attori e spettatori della nostra sempiterna tragedia. Non conoscere la lingua del racconto significa davvero non capire i fatti della storia? Basta osservare con gli occhi dell’intuito, che è lo strumento dello spirito, per farti sapere ciò che credi di non sapere. E tu, cuore, sai bene come annaffiare di sangue i tuoi giardini deliziosi di verde.