“Ovvi destini”, testo e regia di Filippo Gili, con Piergiorgo Bellocchio, Anna Ferzetti, Daniela Marra e Vanessa Scalera. Alla Sala Umberto di Roma
Gli attori, segreto dei registi
Con un buon quartetto in scena – Piergiorgo Bellocchio, Anna Ferzetti, Daniela Marra, Vanessa Scalera – Ovvi destini di Filippo Gili anche regista alla Sala Umberto è uno di quegli spettacoli che possono indurre a considerazioni errate. Cioè che nel teatro italiano ci sarebbero buoni interpreti per testi modesti.
Non è vero ovviamente, però questa drammaturgia scombinata mette a motore dell’azione un personaggio maschile che prima è un ricattatore, poi però il ricatto cade e non si capisce perché, allora d’improvviso non è più cattivo e tenebroso ma diventa una figura magica, forse un angelo, che può fare miracoli, basta chiederglielo col pensiero e realizza un desiderio irrealizzabile, una specie di genio della lampada. Le protagoniste sono tre sorelle, – Laura la maggiore, Lucia e Costanza la cadetta. La più giovane vive sulla sedia a rotelle vittima di un incidente involontariamente causato dalla più grande: Laura si è appesa alle travi marce di un edificio fatiscente di periferia per volteggiare causando il crollo della struttura che ha ucciso due ragazzini e condannato Costanza.
In un’intervista di qualche settimana fa, Gili ha spiegato di avere “innestato un racconto di Buzzati, Il crollo della Baliverna, nel film di Tarkowskji Stalker“ (dove c’è una stanza dei desideri). Quindi la sorella maggiore, peraltro afflitta da ludopatia, non ha colpa, anche se è involontaria corresponsabile, ma ha un enorme ed esagerato senso di colpa, non vuole rivelare alle sorelle cos’è successo veramente e si fa ricattare dallo sconosciuto che sostiene di avere visto tutto. Però, colpo di scena, l’ignoto, che di mestiere fa il fisioterapista, dice inaspettatamente e senza motivo di poter fare un miracolo. Il problema allora diventa se chiedergli di rimettere in piedi la sorella oppure resuscitare i ragazzini. Lo spettatore cattivello potrebbe invece pregarlo di raddrizzare la commedia. Il surreale non è un racconto illogico, ma una struttura narrativa che narra una realtà altra costruita su una coerenza rigorosa degli elementi e delle regole surreali che la sostengono. Uno dei più bravi nel campo della logica del surreale, oltre a Buzzati, era Salvador Dalì: “Non capisco perché, quando chiedo aragosta alla griglia in un ristorante, non mi viene mai servito un telefono cucinato”. Il finale però è interessante e sorprendente, pone una domanda filosofica sul tema del desiderio, che viene dal latino “de-siderare” ed etimologicamente esprime un meraviglioso concetto, ossia “l’atto di distogliere lo sguardo dalle stelle perché l’augurio tanto atteso non arriva”.
Dei due spettacoli, il primo essendo la drammaturgia, il migliore è quello dato dagli interpreti. Per quanto frenati dallo stesso Gili alla regia che li vuole ogni tre per due silenziosi per lunghi secondi, i quattro riescono nell’impresa di tenere dialogo e personaggi. I silenzi rappresentano, nel caso di Eduardo per esempio, un modo per dire molto senza dire niente, altrimenti sono degli effettacci, un modo per non dire niente senza dire niente. Ma l’arte dell’attore sa trasformare il nulla in qualcosa e l’artificio in illusione. Spesso il segreto dei registi sta nella maestria degli interpreti.