“La tempesta” di Shakespeare, traduzione, adattamento, regia, scene, luci, suoni, costumi di Alessandro Serra. All’Argentina di Roma
William stasera non è stato invitato
Il grande anglista Giorgio Melchiori scriveva che La tempesta di Shakespeare “è prima di tutto un esperimento nel campo dello spettacolo: sfrutta deliberatamente, come nessuna opera precedente, le risorse e i trucchi della scena sia del teatro pubblico che di quello privato – apparizioni, uso di vani interni e della galleria, e della machina per la discesa di esseri soprannaturali…”. Frances Yates, la formidabile studiosa di neoplatonismo, occultismo e filosofia rinascimentale, sosteneva che Prospero è un mago ermetico e la composizione del dramma si inserisce nello scenario storico del misticismo kabalistico-cristiano dei Rosacroce. Agostino Lombardo, altro anglista di gran fama, ammoniva che voler leggere La tempesta in un’unica chiave significava “chiuderla in una gabbia interpretativa che l’opera non sopporta. Dovremmo dire, al contrario, che proprio il fatto di venire dopo tante esperienze teatrali la rende così ricca e problematica, così densa e polivalente, da farla sfuggire ad ogni definizione”.
Le interpretazioni del dramma sono molteplici, spesso meravigliosamente feconde di constatazioni e ipotesi conseguenti. A patto di farla però, questa Tempesta. Alessandro Serra l’ha messa in scena all’Argentina di Roma firmando traduzione, adattamento regia, scene, luci, suoni, costumi e in un’ora e tre quarti di spettacolo l’ha snaturata. Nell’originale il tempo della rappresentazione – tre ore – coincide con il tempo dell’azione scenica. Questa coincidenza non è casuale, testimonia della straordinaria perizia di Shakespeare, della sua capacità di fondere arte teatrale e ingegneria dello spettacolo. Nel Bignami di Serra saltano tutti i rapporti fra i personaggi: fra Prospero e sua figlia Miranda; Prospero, Ariele e Calibano; Miranda e Ferdinando. Parimenti, la tritatura di qualsiasi significato – a scelta: politico, esoterico, filosofico, storico – trasforma questo vertice dell’arte, questa costruzione straordinaria di un teatro del mondo, in una simpatica farsa i cui ruoli centrali paiono i due marinai ubriaconi Stefano e Trinculo. Shakespeare non disdegna in nessun modo la risata grossa e la buffoneria, anzi la vena popolaresca fa pienamente parte del suo armamentario teatrale, però The tempest non è la Mostellaria di Plauto.
Non si capisce quindi perché lo spettacolo è annunciato come La tempesta di William Shakespeare. Tale non è. Potrebbe trattarsi invero de La scomposta, La scompigliata, La scombiccherata di Alessandro Serra, commedia comica in due tempi di ambientazione serale. Perché le luci basse, un po’ illividite, del buio qua, della penombra là, sono una polizza dei Lloyd’s di Londra sul valore artistico dell’operazione. Per perfezionarla però ci vogliono delle trovate in giro per il palcoscenico: Calibano si carica sulla schiena una gerla di rami rinsecchiti. Che vuol dire? Sarà la morte che è scesa dagli alberi? Miranda porta una conchiglia. Conterrà la perla, simbolo essenziale della femminilità creatrice: la ragazza aspetta un figlio? Il figlio della colpa? Le maschere di Tiziano Fario, bellissime di per sé, indicano forse i nostri tradimenti, decadimenti, torcimenti, marcimenti, stravolgimenti (di capolavori shakespeariani). Senza pentimenti. Le astuzie visuali di Serra rappresentano il tentativo di spacciare per significato un’artificiale estrosità del significante e di sostituire il senso con la suggestione: vetrinismo teatrale. Coerente però, lo spettacolo rispetta il progetto stilistico che lo connota e lo compie.
Senza chiarire il significato della messinscena, è probabile che gli attori si comportino di conseguenza. Quindi il Prospero di Marco Sgrosso appare rigido e orfano di magia perché dare un senso a un personaggio non significa solo guidarlo nelle entrate e uscite di scena ma donargli una luce. Chiara Michelini come Ariele spirito dell’aria è talmente aerea da divenire evanescente. Miranda (Maria Irene Minelli), così perfetta, dice Ferdinando, creata con le miglior parti d’ogni creatura umana, possiede la perfezione di chi non c’è. Ma gli interpreti, i citati e i loro compagni di scena, hanno poca o niuna responsabilità: chiaramente fanno quello che Serra chiede e ci mettono il loro mestiere. Una regia votata alla confezione, all’effetto dell’immagine, alla cura di se stessa concepisce gli attori come elementi da inquadrare in un collettivo di servizio. Viene da ricordare una considerazione di Jerzy Grotowsky: “Ciò che colpisce quando si pensa al mestiere dell’attore, così come è praticato oggi, è il suo squallore: l’appalto su di un corpo che viene sfruttato dai suoi protettori – direttori e registi – il che a sua volta, fomenta un’atmosfera di intrighi e di ribellione”. Qui non c’è nessuna ribellione e gli interpreti non verranno liberati dal regista come Ariele da Prospero alla fine del dramma. Una domanda resta inevasa: perché molti registi rigettano l’idea di mettere in scena i testi di Shakespeare così come l’autore ha osato comporli? Sono proprio così brutti e mal scritti?