“La classe” di Vincenzo Manna, regia di Giuseppe Marini. Con, fra gli altri, Claudio Casadio e Andrea Paolotti. Al Quirino di Roma
La fine finisce sempre alla fine
Una coppia di abbonati del teatro Quirino di Roma, la sera della “seconda”, due habitués di lunga data che ancora ricordano la ragazza della biglietteria di anni fa “bella come Catherine Deneuve”. Ottimi posti i loro, da intenditori, poltrone di platea centrali, di corridoio, non troppo sotto il palcoscenico. All’intervallo di La classe, autore Vincenzo Manna, regista Giuseppe Marini. Lei: “Se vogliamo giudicare lo spettacolo, dobbiamo vederlo fino alla fine”. Lui: “E dove vorrà annà a finì?” Lei: “Alla fine”. Il pubblico ha sempre ragione e se per di più è abbonato non ha mai torto.
Una classe scolastica è una sineddoche della società, una parte per il tutto. Così come la prua di una nave sottostà al principio di Archimede della spinta idrostatica valido per la nave intera, così una classe è soggetta alle stesse leggi sociali, antropologiche, culturali, giuridiche che informano la polis di cui è espressione. Questa è una delle ragioni che fanno de L’attimo fuggente un film rimarchevole: da un microcosmo racconta un cosmo. Ora, un naturalismo così spinto come quello voluto in scena da Marini, dove si strilla e ci si agita per tre quarti dello spettacolo, e dove il professore, che dovrebbe affascinare e conquistare ragazzi difficili, è più nevrastenico di loro, può anche essere vero nella realtà ma non è verosimile. Purtroppo il teatro è il regno del verosimile, non del vero; del finto e non del falso. Su tutto questo ipernaturalismo da pollaio nel giorno del brodo di gallina (la metafora della gallina per spiegare il comportamento degli studenti è un’idea dell’autore), la regia ogni tanto, al momento di sottolineare un passaggio delicato della rappresentazione, o un moto d’animo dei personaggi, soffonde le luci, le smorza, le fa, come si dice, emozionali e antinaturalistiche. La coerenza non è una legge dell’arte e bisogna dire inoltre che la logica (in ispecie nelle questioni sociali e culturali) è come le buone intenzioni, lastrica la strada per l’inferno. Però la scena ha le sue ragioni che la ragione conosce, seppur non razionali, ma non irragionevoli: il tono, il tempo, la misura. La sensazione che dà Andrea Paolotti, nel ruolo protagonista del professor Albert, è di stare sempre a sparare la battuta come un sasso dentro lo specchio del naturalismo. E viene invece spontaneo solidarizzare con i sei attori giovani che interpretano gli studenti visto che la regia li esorta a darci dentro e squartare le trippe dei personaggi, i quali da sventrati sono morti, l’esagerazione gonfia e poi pialla perché la vita, anche scenica, è respiro, ritmo, espirazione ed inspirazione, tensione e distensione. Eppure i giovani attori, per quanto a volte sbandino per conto loro, nello squilibrio generale restano in piedi perché capita che l’inesperienza giovanile si tragga d’impaccio con l’aiuto d’una sincera e salvifica incoscienza, al contrario dell’inesperienza di anni che conduce a capitombolare con convinzione. È la differenza fra l’inesperienza dei vent’anni e i vent’anni di inesperienza. Vanno citati quindi questi sei della classe: Federico Le Pera, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Andrea Monno, Caterina Marino e Giulia Paoletti.
Discorso a parte per Claudio Casadio nel ruolo del preside: sembra fare uno spettacolo suo, facilitato anche, all’inizio d’ognuno dei due atti, dai monologhi che sviluppano appunto la metafora delle galline a spiegazione del comportamento del pollaio, cioè della classe. Casadio ha i suoi tempi, i suoi movimenti, il suo modo di stare in scena e astutamente attribuisce al personaggio una distanza e una superiorità gerarchica.
Una trama c’è: viene chiamato ad insegnare in un istituto comprensivo professionale un docente di storia alle prime armi che si ritrova ad affrontare una classe turbolenta di ragazzi di periferia già sospesi per motivi disciplinari e necessitosi di recuperare crediti scolastici. Non ci sono sorprese, la situazione è difficile e al di là dei singoli eventi, lo sviluppo della vicenda sarebbe legato all’evoluzione dei rapporti fra il professore e gli allievi i quali dovrebbero progressivamente andare dal peggio al meglio, dallo scontro fisico dell’inizio al riconoscimento e alla solidarietà. E come se il compito drammaturgico non fosse già abbastanza complicato, a peggiorare le giornate dei ragazzi, destinati alla disoccupazione e all’esclusione sociale, c’è un campo profughi poco distante dalla scuola chiamato “lo zoo” che è pretesto per altre questioni, un po’ irrisolte invero, riguardanti il razzismo, l’immigrazione, la disperazione eccetera, mischiati con l’ignoranza dei giovani, la loro violenza, l’inutilità dello studio e del sapere. Come se non bastasse, gli studenti devono anche partecipare a un concorso con una ricerca sull’Olocausto, tema enorme che sembra messo lì a dare un po’ di movimento al dramma per essere poi chiuso sbrigativamente. Con un testo così, gonfiato di steroidi drammaturgici, non è semplice lavorare sobriamente e scansare il moralismo e difatti non lo si evita, imbarocchito da pistolotti del prof che sarebbero pericolosissimi da pronunciare in una vera classe di coatti borgatari. Ma questa forse è una concessione irrealistica al naturalismo. “Dulcis in fundis” dice a un certo momento il docente, a comprova che forse anche lui necessiterebbe di qualche lezione. Dulcis in fundo lo spettacolo finisce. E dove finisce? Alla fine.