“La grande abbuffata” dal film di Marco Ferreri, drammaturgia di Francesco Maria Asselta e di Michele Sinisi anche regista. Al teatro Basilica di Roma

La grande abbuffata

Dentro il grasso dell’Europa

Sesso e cibo, cibo e sesso, sesso sesso cibo cibo, quanto aveva visto giusto Marco Ferreri con La grande abbuffata, suo film profetico, catartico, politico del 1973 ora che siamo finalmente nell’orgia conclamata della società gastrica, pornografica, pornogastrica, reportage televisivo sulla guerra in Ucraina, le bombe, la fame, ora pubblicità, torniamo subito, restate con noi, cibo per cani ciotola con proteine di qualità per dare forza al bracco ungherese e allo yorkshire.
Lo sapeva Ferreri che sarebbe andata male, consumare, ingoiare, succhiare, fornicare, esplodere con un maiale arrosto nella pancia, pancia europea, mentre tre prostitute scaraventano sesso sui quattro amici che hanno deciso di morire dentro la trippa del baccanale dionisiaco, nel ventre del dio selvaggio, scena oscena, encefalo acefalo, tinto è l’istinto unto di grasso della modernità apolitica, impolitica, postmodernità prepolitica, magnifiche sorti regressive d’uomini  smembrati impotenti d’anima e d’amore, contemporanei temporanei, forse il membro si muove ancora, inutile, superfluo, di fronte al pornorama, all’orizzonte onanistico, Onan o l’autismo del corpo, finalmente l’altro, che è una scocciatura, una rogna, viene eliminato con la morte lorda dei quattro amici, bella morte invero, segno d’una consapevolezza dritta e puntuta come un tacco a spillo di femmina baccante.
Ci vuole fegato, fegato da mangiare con le cipolle soffritte per gustarlo meglio e piangere di più, a mettere in scena al Basilica di Roma una versione teatrale de La grande abbuffata scritta da Francesco Maria Asselta e da Michele Sinisi anche regista. L’enorme indigestione dell’Occidente, gargantuesco gargarozzo, gargarismi stonati di forsennati accoppiamenti d’un maschio a cavallo d’una Vespa per farsi cavalcare da un’ape di bordello, viaggio di sesso fesso sulla Piaggio ferma, immobile nel ghiaccio della nostalgia per le cose che non sono mai state e non saranno mai, illusioni di morti revival, il pessimo gusto delle memorabilia per smemorati, Gozzano, gozzo, gozzoviglia di frutti di marmo, il salotto di nonna Speranza dei nostri anni verdi è diventato un lupanare dove bollire spaghetti da mangiare sopra la tomba d’un sedere di lupa. Moriranno i quattro perché il mondo è colmo d’amore che gli uomini non riescono più a bruciare e lasciano a gonfiarsi come un pallone pieno di gas da cucina finché non scoppia seminando devastazione, femminicidi, stupri, divorzi e una voglia avida, sessuale, di guardare un reality di cuochi condotto da qualche presentatrice bionda, lattea, carnosa e rassicurante come la cartacea femmina provocante, erettiva ma innocua di un fumetto pornazzo degli anni Settanta. Queste che stanno in scena sono invece delle erinni, mangiano maschi che mangiano, la grande abbuffata è la flatulenza del mondo che divora se stesso nella noia di un enorme sbadiglio, nella feroce banalità goliardica del caos. Sinisi si mangia gli spettatori nell’orgia di musiche, voci parole, nudità, mutande, reggiseni, di nulla, nulla, nulla pieno da scoppiare dentro gli smoking dei personaggi, abito maschile della festa di falsa eleganza, il papillon nero che stringe il colletto della camicia immacolata di chi sceglie di morire mangiando tutto il maiale. E le prostitute, le cosce, i glutei, i fianchi, i seni coperti per non coprire, scoperti per non scoprire, su e giù, su e giù nell’ipnotico movimento fornicatore, divoratore, distruttore. Ci abbiamo messo tempo a tornare nella grotta di Dioniso ma questo spettacolo dice che ce l’abbiamo fatta. Teatro morale come un film di Marco Ferreri.
Bravissimi, tutti: Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’Addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Stefania Medri, Donato Paternoster, Adele Tirante.

Marcantonio Lucidi,
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