“The spank” di Hanif Kureishi, regia di Filippo Dini anche interprete assieme a Valerio Binasco. Al Parioli di Roma
La normalità non c’è più, anzi non c’è mai stata
“Dov’è finita la normalità?” è la prima battuta del dramma di Hanif Kureishi The spank, messo in scena al Parioli di Roma da Filippo Dini che dirige se stesso e il coprotagonista Valerio Binasco. Tutto il dramma è il tentativo di rispondere a questa domanda, oppure di opporsi alla fine della normalità o ancora di evitare di cadere nel buco che si apre nel momento in cui l’anormalità tira verso l’irrisolvibile. Anche il significato di un testo teatrale si fa incerto quando tutto è fuori squadra per l’anormalità delle cose e il muro del reale non è più tirato su ben dritto con il filo a piombo della logica.
Spank in inglese vuol dire sculacciata e Spankies è il nome di un pub londinese nel quale due amici, il dentista Sonny e il farmacista Vargas, si ritrovano regolarmente a bere e chiacchierare della vita, delle donne, dei massimi sistemi e delle scocciature quotidiane. Hanno delle cose in comune ovviamente: figli di immigrati, si sono innalzati fino al successo professionale e agli agi di benestanti. Sposati con prole, ragionano su dei valori condivisi e vedono la vita da un’angolazione simile. Agli uomini sono sempre piaciute le situazioni fallocentriche fra simili con licenza di chiacchiera (che giustamente si definiscono volgarmente “cazzeggio”). L’amicizia dei due protagonisti, ovviamente caricata d’una certa misura di goliardia tipicamente maschile, è di quelle che escludono le donne e vengono vissute come recinti di libertà (recinto di libertà suona paradossale ma è così), dalle bande adolescenziali alle squadrette di calcetto, dalla massoneria ai club per gentiluomini e ai circoli privati esclusivamente testosteronici. Ma neanche il cameratismo è ignifugo e può facilmente essere bruciato dalla vita. Uomini maturi, Sonny e Vargas rischiano, come è tendenza nei loro coetanei, di divenire prede del demone di mezzogiorno, il nome letterario e nobile della volgare crisi di mezz’età. Una storia di corna si infila in questa amicizia per scardinarla come un piede di porco in una porta. Il dentista diventa succubo del demone femminile che gli sconquassa la vita. Finisce praticamente sulla strada, mentre il farmacista cerca di riportare alla normalità il compagno di bevute. Dov’è finita la normalità? Non esiste, è un inganno. Anche per Vargas, rimasto su binari dritti che non portano da nessuna parte.
Questa è la storia di amici che si allontanano l’uno dall’altro trascinati da loro stessi, dai castelli in aria che agognano abitare, dalle fatemorgane che li perdono fra Scilla e Cariddi, dagli ingranaggi della vita che strappano e stracciano gli uomini come fogli di carta. Non è solo la fine d’una fratellanza, ma la sopraggiunta impossibilità di riconoscere il compagno come appartenente a una comune classe morale, etica, umana. Si tratta di una catastrofe: “Mi sembra che tolga il sole dal mondo chi toglie l’amicizia dalla vita, di cui niente di più bello abbiamo dagli déi immortali, niente di più dolce”, scrive Cicerone nel De Amicitia. Si ride molto, Kureishi è abile e ancor di più i due interpreti che di come si sta in scena sanno tutto. Al punto che – informa il programma di sala – l’autore ha operato cambiamenti importanti rispetto al testo iniziale per adattarlo ai due attori. Questo forse è il modo migliore di fare teatro: sono io che scrivo per te che reciti, non tu che reciti per me che scrivo.