“Piazza degli eroi” di Thomas Bernhard, regia di Roberto Andò. In scena, fra gli altri, Renato Carpentieri. All’Argentina di Roma

Piazza degli eroi

Nazisti su Vienna

Che “i cosiddetti socialisti non più socialisti” siano i becchini d’Europa, come afferma il professor Robert Schuster, il protagonista di Piazza degli eroi, è constatazione addirittura banale. Oggi. Trovasi però che Thomas Bernhard scrisse il dramma qualche mese prima del 1989, data fatidica per il mondo e per l’autore che in un giorno di febbraio di quell’anno morì. All’epoca per prevedere certe cose bisognava essere Nostradamus. Oppure italiani perché qui da noi funzionava a pieno regime il banditismo socialista. “Se questo paese (l’Austria, ndr) è così marcio, dobbiamo ringraziare questi pasciuti e opulenti pseudosocialisti”, continua il professore. Esistono degli scrittori che restano contemporanei anche dopo la morte perché nel loro pensiero agisce un principio di indeterminazione storico-filosofica che rende le loro parole sempre attuali, altrove ora come ieri qui.
Secondo Robert Schuster, l’Europa è “una cloaca spiritualmente vuota” per colpa dei socialisti. Ci sono dei crimini contro l’umanità non normati dal diritto penale e sono i delitti contro lo spirito. Il tradimento degli ideali, lo sfruttamento della speranza, la distruzione della scuola e della sanità pubbliche, la diffamazione e l’involgarimento della cultura. In Italia ci ha pensato, in combutta con i liberisti travestiti da liberali, la sinistra di destra, la sinestra dei veltrusconi, a iniettare nelle nostre menti, nella nostra anima, la lebbra del clan gauchista e del servilismo salottiero.
Il teatro è sempre teatro politico, questo è il principio che informa il dramma di Bernhard e che vale come fondamento dell’arte scenica. Ragion per cui la politica, in ispecie la debole, gaglioffa, trionfalmente analfabeta e degenerata politica nostrana, teme il teatro e s’adopera in qualsiasi modo per tenerlo sotto un tacco di stivale, negargli surrettiziamente i fondi, cooptare sistematicamente i peggiori nella nomenklatura teatrale, organizzare la camera a gas della burocrazia ministeriale.
Roberto Andò, regista dello spettacolo, scrive nel programma di sala a proposito del dramma di Bernhard: “Negli ultimi anni, ho pensato molte volte di farlo, e ora, ho pensato che fosse arrivato il momento giusto. Giusto e opportuno”. Vero, da tempo è arrivato il momento di fare un dramma varie volte rappresentato all’estero con allestimenti di rilievo. In Italia invece mai è andata in scena questa critica così drastica, addirittura violenta, nei confronti di una classe politica austriaca colpevole di avere mantenuto strutture autoritarie e naziste. Evidentemente l’Italia è un paese che ha passato settantacinque anni a raccontarsi la favola di avere superato la dittatura, di essere una terra libera e democratica, e ha paura di chi potrebbe osservare che lo scatto del meccanismo autoritario è presente tutti i giorni anche da noi, nella società, nelle istituzioni, nelle strutture pubbliche e private, nei sindacati, nel familismo amorale che caratterizza il paese. Se per Bernhard il popolo austriaco ha una natura intimamente nazi, in Italia, più del vizio fascista, da nord a sud si pratica un tribalismo intrinsecamente mafioso. Sono due autoritarismi, due teologie della schiavizzazione, due modi di uccidere lo spirito dell’uomo.
La piazza degli eroi del titolo, Heldenplatz, è quella dell’Hofburg, l’immensa residenza degli Asburgo, è la piazza della folla pazza che con giubilo ascoltò Hitler proclamare l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Bernhard racconta una storia complessa che si sintetizza nel personaggio di Robert Schuster, magistralmente, magnificamente, interpretato da Renato Carpentieri. La sua è una prova d’attore che non si dimentica. Robert, professore di filosofia, è il fratello di Josef Schuster, professore di matematica che in un giorno di marzo del 1988, esattamente cinquant’anni dopo l’Anschluss,  si è suicidato buttandosi dalla finestra della casa di famiglia che dà proprio su Heldenplatz. Il primo atto, che si rivela da subito un esempio di grande teatro, perfetto nel testo, nella regia, nell’interpretazione, come tutto lo spettacolo d’altronde, è affidato alla governante, la signora Zittel (Imma Villa), e alla cameriera che porta lo stesso nome della madre di Bernhard, Herta (Valeria Luchetti), la quale in un periodo della sua vita aveva lavorato come domestica. Decine di paia di scarpe inglesi sono disposte in proscenio (l’autore ne possedeva un centinaio), la signora Zittel stira le camicie del suicida e le ripone nei bauli che devono essere spediti a Oxford. La casa va venduta, la famiglia è in declino, si sta qui un po’ come ottant’anni prima nel cechoviano Giardino dei ciliegi. Dice di una follia questa folla di scarpe, che paiono quelle degli spettatori in ascolto delle parole della Signora Zittel: la governante racconta del matematico, della sua precisione maniacale, la rigidità, l’intolleranza, il supremo attanagliante sforzo di dare un ordine al mondo. Gli Schuster sono una famiglia ebrea che fu costretta all’esilio in Inghilterra dalle leggi razziali, il matematico ad Oxford, il filosofo a Cambridge. Dopo la guerra, Josef è voluto rientrare a Vienna, contro il parere della moglie, per amore della musica, così diceva. Ma il ventre della città è rimasto antisemita e l’intestino nazista.
Il secondo atto si svolge in un giardino (ancora Cechov) con due panchine, dei tronchi d’albero sospesi con qualche ramo e delle cadute di foglie gialle d’autunno. Un’idea scenografica di Gianni Carluccio elegante, teatrale, accordata con il testo e il suo declinare verso un inverno della civiltà. Ora entra in scena Robert che parla con le figlie del suicida, Anna (Silvia Ajelli), spirito razionale, e Olga (Francesca Cutolo), più silenziosa invece, introversa. Dopo avere conosciuto Josef attraverso lo sguardo dal basso in alto della servitù, lo si vede stavolta con gli occhi del fratello, un suo pari. E non si osserverà il suicida ma il sopravvissuto. Procedura di una grande mano drammaturgica. La tragedia non sta nella morte, sta nella vita.  Robert è vecchio, in pensione, è rientrato da Cambridge, vive in campagna, ha perso ogni speranza negli uomini. È più di un misantropo, meno di un nichilista, è uno stilita, un uomo immobile, si rifiuta persino di protestare e agire per scongiurare il pericolo di una strada che dovrebbe passare per il suo giardino. Sa che i viennesi non sono cambiati. Infatti Olga ha ricevuto per la pubblica via uno sputo in faccia perché ebrea. Non c’è nulla da fare: “Gli europei sono condannati a morte, la sentenza è stata pronunciata. A Vienna ci sono più nazisti che nel ’38”. Il suo è quasi un monologo contro l’Austria e gli austriaci che fece molto arrabbiare i connazionali dell’autore in occasione della “prima” del dramma il 4 novembre 1988 al Burgtheater di Vienna. Lo scandalo montò, Bernhard fu fisicamente aggredito quella sera, venne pubblicamente accusato di antipatriottismo e trattato da Nestbeschmutzer, un dispregiativo di esterofilo, letteralmente uno “sporca-nido”. Rispose agli attacchi con il suo famoso testamento in cui proibiva le rappresentazioni dei suoi testi in Austria. L’ultimo atto è una tavolata che riunisce tutta la famiglia, anche la vedova Hedwig (Betti Pedrazzi) che nella sua testa, nella sua povera testa di ebrea perseguitata, sente ancora, mezzo secolo dopo, i satanici echi hitleriani salire da Heldenplatz.
Per questo spettacolo importante di Roberto Andò, lavorano, oltre ai già citati, anche Paolo Cresta, Stefano Jotti, Enzo Salomone. Una compagnia degna di stare in scena assieme a Carpentieri. Costumi di Daniela Cernigliaro. Il pianista Vincenzo Pasquariello suona Chopin e Beethoven e si aggira sul palcoscenico come fantasma di Josef nel corso di tutta la rappresentazione. Non è un personaggio che sta nel copione, ma una bella idea di Andò. È il fantasma dell’Europa.

Marcantonio Lucidi,
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