“Mistero buffo” di Dario Fo e Franca Rame, regia di Eugenio Allegri, interpretazione di Matthias Martelli. Al teatro Parioli di Roma
La volpe e il giullare
A proposito del Mistero buffo di Dario Fo e Franca Rame, di cui va in scena al Parioli di Roma una versione interpretata da Matthias Martelli, Tadeusz Kantor scrisse un’osservazione non benevola quando vide lo spettacolo nel marzo dell’83 all’auditorium di Palma di Maiorca: “La vecchia volpe (Dario Fo, n.d.r.) recita in mezzo al pubblico, un efficace effetto tecnico che non serve a nulla, il che potrebbe affascinare. Usciamo nell’intervallo e non facciamo più ritorno. Vale la pena di tanto in tanto guardare tali spettacoli, per vedere oggettivamente il proprio valore”. Apprezzabile che Martelli, diretto da Eugenio Allegri, non usi questo genere di artifizi da vecchia volpe e che vada per un suo modo di fare il Mistero buffo, anche se forte si sente su di lui l’influsso del premio Nobel nella mimica, nei tempi e nelle pause, nel modo di muovere le mani, di usare la voce e calare il grammelot nei suoni gutturali.
Sul suo sito, Martelli si definisce attore, autore, giullare. La parola “giullare” è stata nobilitata da Dario Fo. Da sinonimo di “buffone”, l’ha innalzata, anzi l’ha riportata, al suo significato alto di “ioculator Domini” giocoliere di Dio. Nella sua bellissima biografia di San Francesco, Raoul Manselli spiegava che “Gli ioculatores Domini potevano in qualsiasi momento, solo che le circostanze fossero opportune, levarsi fra la folla, presentarsi, sviluppare il tema delle loro idee. E il cavaliere di Madonna Povertà raccontare le sue avventure, parlare del suo amore con calore, il fervore, le movenze psicologiche, con cui aveva sentito i consoli o il podestà, nei contrasti e negli scontri cittadini, toccare i tasti più delicati della sensibilità dei presenti per piegarli alla penitenza ed indirizzarli a una vita più cristiana”. Però più che un giullare, Dario Fo era, come si autodefiniva, un “attore dilettante”, il quale peraltro aveva fatto il poverello di Assisi in un monologo del 1999, Lu Santo Jullare Françesco. Giullare era Francesco, non Dario Fo. Fo era un dilettante (in senso settecentesco e aristocratico, molto positivo) in quanto il teatro per lui, artista intellettuale engagé provvisto di una capacità critica, non sarebbe un fine ma un mezzo di espressione e comunicazione. Capacità critica nel suo caso acquisita come progressiva presa di coscienza politica. Un giullare non si sarebbe mai arruolato nella Repubblica sociale italiana perché, se giocoliere di Dio, è per istinto, per costituzione, anche irrazionalmente, un essere elevato, poetico, divino; e comunque naturalmente anticonformista, ribelle, irriverente, sempre opposto al potere costituito se è un saltimbanco di piazza. Ecco perché presentarsi come giullare è azzardato, equivale a proclamarsi coraggioso.
Bisogna però ammettere che Martelli di fegato ne ha. Non ci hanno provato in molti a rifare il Mistero buffo: Paolo Rossi, Lucia Vasini, Mario Pirovano che è entrato nella compagnia di Dario Fo e Franca Rame nell’83 e da trent’anni porta in scena i loro testi. L’interprete al Parioli ha proposto alcune delle numerose giullarate che compongono il testo (più volte rimaneggiato dai due autori), incominciando con il miracolo delle nozze di Cana, poi il famosissimo Bonifacio VIII e il primo miracolo di Gesù bambino tratto dai vangeli apocrifi. Martelli è vitale, tecnicamente dotato, empatico, come dire, teatrogenico, anche caustico quanto basta per fare figura di comico e showman audace, prudente abbastanza (almeno in questo spettacolo) da preparare battute con il botto dello scherzo ma senza il colpo dello scherno. Un’abilità che si capisce nei suoi interventi frammezzo le giullarate, in cui l’attore aggiunge di suo, spiega il testo, lo commenta e lascia intendere che Dario Fo è ormai un classico. Prima degli italiani, lo avevano capito quelli dell’Accademia di Svezia che nel 1997 consegnarono al “dilettante” il Nobel per la letteratura. Dal 1901, quando il premio è nato, lo hanno vinto sei italiani, tre per la poesia (Carducci, Quasimodo e Montale), due per il teatro (Pirandello e Fo) e solo una per la narrativa, una donna, Grazia Deledda. Le donne che hanno vinto lo Strega dal 1947 a oggi, sono undici contro sessantaquattro uomini. E una nelle ultime diciotto edizioni. Presso le case editrici nostrane vige la convinzione che non bisogna pubblicare la poesia e il teatro perché non rendono. Evidentemente però a Stoccolma la pensano diversamente e il premio agli italiani lo danno quando sono drammaturghi, poeti o donne. Pare proprio che l’editoria italiana faccia di tutto per andare contro gli italiani. Una bizzarra forma di autorazzismo.