“Ezra in gabbia o il caso Ezra Pound”, testo e regia di Leonardo Petrillo, con Mariano Rigillo ed Anna Teresa Rossini. Alla Sala Umberto di Roma

Ezra in gabbia

Forse matto, di certo un gigante

Mariano Rigillo è sempre stato un talento, un attore magnifico. Da giovane ha fatto l’Accademia nazionale e ha avuto un maestro del calibro di Orazio Costa, ma non si può incasellarlo in una precisa scuola teatrale, è un artista nato imparato, come si dice a Napoli, sua città di nascita.
È anche merito, o colpa, della sua bravura se c’è un momento, verso la fine, in cui lo spettacolo, intitolato Ezra in gabbia o il caso Ezra Pound, arriva quasi all’intollerabile: quando Rigillo che impersona Pound, o meglio Pound impersonato da Rigillo fa in modo plateale e con un tempo perfetto il saluto fascista. È il 1958, il poeta sta tornando in Italia dopo quasi dodici anni di internamento nell’ospedale psichiatrico criminale St. Elizabeths di Washington. La battuta che annuncia l’ignobile postura è chiara: “Quando sbarcai a Genova, dal transatlantico Cristoforo Colombo provocai i giornalisti facendo il mio ultimo “gesto ironico”. Un gesto ironico: il problema è che quando scatta il braccio di Rigillo, scatta anche l’applauso, forte, entusiasta, di un gruppo di spettatori della Sala Umberto. Eppure Rigillo non sta chiudendo una tirata, la sua non è una carrettella, né ci sono ragioni teatrali per i battimani, salvo il movimento stesso. Esistono due possibilità: l’applauso arriva perché l’esecuzione dell’attore appare a dir poco icastica – ed è quanto si spera – oppure una parte del pubblico, come una parte degli italiani, è geneticamente fascista. Non di destra, conservatrice, moderata, liberista. Fascista. Non c’è niente da fare, si tratta di una maledizione, di una patologia congenita che colpisce una determinata razza (per usare contro i fascisti una parola da fascisti), l’homo obtusus. Non solo in Italia, anche negli altri paesi d’Europa vi sono tribù di appestati della mente, in Germania ovviamente, e persino in Francia, patria della democrazia che ha vinto la Seconda guerra mondiale, il tardovandeano striscia nella società.
Durante lo spettacolo, scritto e diretto da Leonardo Petrillo, Pound ricorda di non avere mai preso la tessera del Pnf e afferma di non essere stato fascista. Però ammette: “Ho creduto a Salò come ho creduto nell’Italia… Mussolini, ho tentato di educarlo. È stato distrutto per non aver seguito i dettami di Confucio”. Quindi non perché era un dittatore. “Altro che antisemita. Il mio nome. Ezra, ha origine ebraica, significa “colui che aiuta”… L’antisemitismo è un’arma usata contro di me, ancora oggi, io ho combattuto, senza alcuna distinzione tra cattolici, islamici, buddisti, ebrei”. Giorgio Nelson Page, mussoliniano e statunitense come Pound, però di alto lignaggio e naturalizzato italiano, fu un funzionario importante del Minculpop e diresse la sezione per le trasmissioni all’estero dell’Ispettorato per la radiodiffusione e la televisione. Scrive nel suo libro di memorie L’americano di Roma a proposito di Pound, il quale fra il ‘41 e il ‘43 tenne alla radio italiana una serie di discorsi in lingua inglese: “Nelle sue trasmissioni latrava contro gli ebrei e contro la politica personale di Roosevelt che, secondo lui, era dominata da elementi semitici. Quando trasmetteva dallo studio di Via Veneto, presso la mia divisione, la sua voce giungeva spesso al piano di sotto, malgrado la chiusura ermetica della porta della sua cabina di trasmissione”. Nelson Page considerava il poeta un insano di mente e lo disse chiaramente nel giugno del ’45 all’agente dell’Fbi Frank Amphrim, arrivato a Roma per l’istruttoria di Ezra Pound. “Che Pound fosse uno squilibrato era una mia antica convinzione – scrive nelle memorie – Uno squilibrio che se non aveva inciso in nessun modo sul suo genio di scrittore e di poeta, lo poneva indubbiamente lo stesso tra gli esseri non normali”. Però aggiunge: “Fui molto soddisfatto che la giustizia americana aveva adottato nei riguardi di Pound la tesi dello squilibrio mentale. Pound sulla sedia elettrica non avrebbe giovato a quel primato di generosità sana, anche se a volte irruente, che mantiene il popolo americano di diritto alla testa dei difensori della civiltà”. Difensori della civiltà: comica espressione alla luce di quanto hanno combinato negli ultimi settantacinque anni gli Usa, nazione in cui quaranta dei cinquanta stati prevedono ancora la pena di morte. Pochi uomini sono dalla parte della ragione, esattamente quelli che stanno dalla parte dell’uomo.
Petrillo per scrivere il testo che ha portato in scena si è avvalso della mole di documentazione che riguarda la figura di Pound, libri, biografie, interviste, analisi, critiche. Ha spezzato il monologo con gli interventi di un personaggio allegorico, la Memoria, affidato ad Anna Teresa Rossini. L’attrice dice – li dice, non li declama, non li recita, non li forza e fa benissimo – pensieri quasi aforistici e non interpreta bensì espira, distende brani dei Cantos, ciò che di meglio Pound ha saputo creare. E ciò che di meglio un poeta a saputo scrivere nel ventesimo secolo.
Il 3 maggio del ’45, Pound viene arrestato da partigiani italiani che lo prendono a casa sua, a Rapallo e lo consegnano agli americani, i quali dopo venti giorni di interrogatori, lo portano nel campo di prigionia di Metàto, vicino Pisa. Lo rinchiudono in una gabbia in metallo di due metri per due con il pavimento in cemento e il tetto in lamiera, sempre illuminata dai riflettori di notte, all’addiaccio. Per tre settimane Pound rimane esposto al sole e alla pioggia, una fetta di pancarré al giorno, una coperta per coprirsi, i bisogni corporali da fare lì, davanti a tutti, fin quando non viene preso da un crollo mentale. Adesso, nello spettacolo, Pound in gabbia si spiega, vuole un processo vero, pretende che gli sia restituito l’onore, riafferma la sua battaglia contro i banchieri, i finanzieri, soprattutto gli usurai, “i nuovi re che governano il mondo” e che rappresentano la sua ossessione. “Eliminando l’interesse, si rovescia la logica del potere, si distrugge una mentalità scellerata. La mentalità del pastore-capitalista che con le sue greggi distrugge, “usura”, i terreni del contadino-popolo. Per questo il contadino-Caino è costretto ad uccidere il pastore-Abele, ma è Abele la rovina del mondo; è Abele che distrugge i campi, non Caino che li coltiva”.
Con queste idee si finisce in tre posti: nella storia della letteratura e della poesia, in una gabbia della civiltà americana, nelle assemblee giovanili e nei salotti di destra e di sinistra degli anni Settanta. Pound veniva letto sia da una parte che dall’altra. Tutti ci trovavano tutto, l’antiamericanismo, l’anticapitalismo, l’antisionismo, l’antitradizionalismo e l’antiprogressismo. Il poeta era la valigia dell’anti. Il genero, il principe italo-russo Boris de Rachewiltz, che aveva sposato Mary, la figlia del poeta, veniva spesso a Roma dal suo castello medievale di Brunnenburg in Tirolo dove abitava con la moglie, circonfuso d’un’aura di mistero accentuata da una barbetta mefistofelica, egittologo che si vociferava privo di laurea ma con fama di iniziato a misteri trismegisti e cenacoli ermetici. La sera si sedeva alla tavola di gente di destra, gente di un’altra destra, che parlava di Ezra Pound e del filosofo esoterico René Guénon, di dottrine teosofiche e sapienza pitagorica, di tradizioni iniziatiche e vie spirituali e che disprezzava la borghesia fascistella romana.
Ora Ezra riposa in uno dei posti più belli del mondo, sull’isola di San Michele, il cimitero di Venezia, fra il continente e le Fondamente Nove, ci va il traghetto numero 42, si deve arrivare al recinto evangelico riservato ai fedeli cristiani non cattolici, bisogna cercare un po’, sta vicino alla tomba di Josif Brodsky, c’è una piccola lapide con inciso il suo nome, Ezra Pound. Altro non c’è scritto. È stato un gigante della poesia.

Marcantonio Lucidi,
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