“Amleto” di William Shakespeare, adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti, con Fausto Cabra nel ruolo del titolo. All’Argentina di Roma
Cocktail party al castello di Elsinore
Sulla locandina dell’Amleto affissa nelle bacheche all’ingresso del teatro Argentina di Roma, il nome del regista Giorgio Barberio Corsetti è stampato a caratteri tipografici almeno doppi rispetto a quelli usati per William Shakespeare. Da qui si capisce mezzo spettacolo, l’altro mezzo non si capisce. Salvo leggere questo passaggio di un’intervista che il regista rilasciò tanti anni fa, nel 1988: “La nostra generazione è stata malata di cinema: una passione sfrenata per il cinema più che per il teatro, anche per noi che lo facciamo. Il teatro è una passione enorme: ma non come genere, bensì come possibilità”. Significa che la scena, la scena viva, si rivela interessante per quello che può dare al regista, non per quello che il regista può darle. Barberio Corsetti rappresenta un malinteso del teatro italiano di oggi.
Gli esordi di Corsetti risalgono alla metà degli anni Settanta nel contesto della seconda ondata della sperimentazione teatrale romana, successiva per età ai Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Giancarlo Nanni. Non si trattava di nuovo teatro, o nuova ricerca, ma di “nuova spettacolarità”, come fu chiamata quella corrente. Oggi, passato qualche decennio, guardando questa messinscena di Amleto, viene il mesto sospetto che tutto il chiacchierare che si continuava a fare in quegli anni sul teatro come collettivo, sulla scrittura scenica e la scrittura drammaturgica, sui nuovi linguaggi della scena e sui pubblici (il plurale di pubblico necessario e ideologico), aveva in effetti come obbiettivo, in molti casi, più della ricerca teatrale, la trovata di se stessi.
Di fronte a questo Amleto che la locandina annuncia come un “adattamento” del regista, cioè stravolgimento, ci si chiede per quale motivo certi “metteur en scène” rifiutano di distinguersi per l’allestimento di uno Shakespeare fatto come lo ha scritto Shakespeare. Chissà perché devono mettere le mani nel testo. Il Bardo era un genio, Corsetti un regista. Ci sarà pure una ragione, una ragione fatta della stessa stoffa dei sogni, che ha dissuaso i due talenti assoluti della scena italiana dal dopoguerra alla loro morte, Giorgio Strehler e Luca Ronconi, dal confronto con il principe di Danimarca e con la materia spettrale della tragedia. “Sono un materialista dialettico, non credo negli spettri, non esistono”, disse una volta Strehler a Gabriele Lavia, cavandosela con una battuta.
Ci deve essere stata per questo allestimento un’ispirazione dalla vita notturna, non solo per passaggi di luci – molto giusti per lo spettacolo – da scorcio di raccordo anulare prima della galleria e dopo la pompa di benzina, ma perché Amleto, vestito del solito blouson noir che gli ha prestato un Romeo dell’Upper West Side, sembra uscito dal Black Out, la discoteca rock anni Ottanta di Roma; il tailleur bianco di Gertrude sarebbe stato perfetto per una regina della notte in un night di Positano mentre il Re muore sopra i divanetti di un piano-bar; a un certo momento, dalle quinte, Rosencrantz e Guildenstern sono sorti (con dei completi da tanghèri adatti anche per le balere di liscio a Bellaria).
Nel corso dei centossessanta minuti di rappresentazione si fanno un po’ di cose da marketing teatrale, forse concepite nella speranza, o nella convinzione, che vengano ricordate dai fortunati spettatori per l’autobiografia dell’io c’ero come momenti eccezionali dell’attuale scena nazionale (come momenti nazionali dell’attuale scena eccezionale): all’inizio si svolge, non previsto da William, un simpatico party rallegrato da flûte di champagne; quando finalmente appare il fantasma, sui bastioni del Castello di Elsinore dove stanno Amleto e Orazio, passa non si sa perché una ragazza (dev’essere una della festa); Polonio cura il giardino; Ofelia si allena sul tapis roulant – “La vaga Ofelia! Ninfa, nelle tue orazioni siano ricordati tutti i miei peccati” – e la ninfa molla un calcio da kick boxing a un sacco da pugilato; a un certo momento viene offerta al pubblico una suonatina di chitarra elettrica (scena vista anni fa anche a Edimburgo per un Amleto che si faceva le pere, pure in Gran Bretagna ai registi piace moderno); e quando arriva la compagnia di teatranti, s’illuminano grosse lettere da luna -park a comporre la parola “morte” per meglio far capire al pubblico che una tragedia Corsetti ha allestito, non una farsa.
Dei dodici in scena, l’attore che sembra sapere cosa fare per sé e per lo spettacolo, che tiene il personaggio, lavora la battuta con precisione, possiede i tempi, i ritmi, i movimenti, che insomma si pone come un interprete e non un ripetitore, è Fausto Cabra nel ruolo di Amleto. Per tutti gli altri, vale in primo luogo una vecchia questione che molto spesso riguarda i registi nati dalla sperimentazione, in particolare la seconda di cui fa parte Corsetti: la loro imprecisione, sovente vera e propria imperizia, nella direzione degli attori. La giustificazione estetica sta nella dichiarazione programmatica insita nei loro spettacoli che il teatro è soprattutto visualità, quindi la recitazione è un fattore K, karaoke. La visualità come fatto sperimentale, trasformazione del linguaggio teatrale e atto di rottura della scena borghese che aveva caratterizzato gli artisti della prima vague, diventa presso gli epigoni un fenomeno commerciale coperto dalla sinistra degli champagne socialist (come li chiamano a Londra) con la flûte in mano ai party. L’immagine scenica, magari da noir metropolitano ma black chic, patinata come una copertina di Vogue, riconduce trionfalmente al conformismo borghese e trasforma l’opera in operazione. Molti degli attori in scena avrebbero diritto a una cattiva parola, ingiusta però in queste condizioni registiche. Le scene più teatrali, semplicemente belle, prive di trovate ed effetti da vecchia spettacolarità, sono i duelli. Scenografie magnifiche e grandiose di Massimo Troncanetti che ha ideato una macchina scenica a più piani che ruota, si compone, si scompone, si verticalizza, si apre e si chiude su metalli, neon, scale, ringhiere, piattaforme, porte come botole e muri diagonali a trasformare il castello di Elsinore nella città degli uomini, delle loro nefandezze, della loro morte. Da osservare come le luci di Camilla Piccioni illuminano e abbuiano con scienza questa grande fabbrica della tragedia. Fa bene un regista come Corsetti ad avvalersi di gente che sa il fatto suo.