“Le leggi della gravità”, da un romanzo di Jean Teulé, adattamento e regia di Gabriele Lavia anche interprete assieme a Federica Di Martino. Al Quirino di Roma

Le leggi della gravità

Nella vita di quelli che cadono

Un orologio posto in alto bene in vista sul palco del Quirino scandisce il tempo della rappresentazione, equivalente al tempo della realtà. Non è la stessa ora, in scena sono le dieci e ventisei di sera, in platea le nove e venti, ma lo spettacolo e l’azione hanno pari durata, circa un’ora e tre quarti.
L’orologio, che varie volte viene consultato dai due protagonisti, Gabriele Lavia e Federica Di Martino, ha una funzione solo apparentemente burocratica: si sta in un commissariato di polizia a Le Havre, in Normandia – questo è un dramma francese – e una signora venuta ad autodenunciarsi è fermamente intenzionata a farsi arrestare dal commissario per avere ucciso il marito dieci anni prima, delitto perfetto archiviato come suicidio. Ma questa notte, classica notte buia e tempestosa da thriller, il delitto andrà in prescrizione e la vedova non potrà più essere perseguita ma non avrà scampo comunque perché si troverà condannata alla pena perpetua del senso di colpa. Fino al rintocco del giorno nuovo, l’assassina è libera. Libera di compiere una scelta fra due forme di reclusione: il carcere che è una detenzione del corpo o il pentimento che è una detenzione dell’anima. Però non ce la fa più, la gabbia del rimorso si apre solo con l’espiazione in una cella. Ma il commissario le dice no, si rifiuta di arrestarla.
L’orologio segna l’ora delle scelte e batte il tempo che è misura di tutte le cose. È il momento di scandire alcune parole, di fare certe riflessioni. Il termine “riflessione” viene dal tardo latino reflexio, propriamente “ripiegamento”. Questo forse è un termine adatto per definire il senso dello spettacolo diretto da Lavia e da lui interpretato assieme a Federica Di Martino, Le leggi della gravità, tratto da un romanzo del 2003 di Jean Teulé, Les lois de la gravité. È un ripiegamento nella riflessione su un delitto più grande dell’omicidio di un marito violento e picchiatore, è un’indagine sull’uccisione delle nostre vite, forma di suicidio che versa nelle menti il sangue dei rimorsi, delle colpe, i fallimenti, la caduta, l’intimo silenzioso disonore che si spande sulle anime e le imputridisce tutti i giorni se un po’ di coscienza gli uomini possiedono, come la signora, anonima omicida d’una città portuale della Normandia, e come un commissario qualunque arrivato davanti alla pensione, fra poco libero dal dovere e imprigionato nell’inutilità.
Il poliziotto non è integro, nessuno lo è, nella sua mente si allunga la sagoma oscura della vita che viene dalla luce dell’esistere, come l’ombra segue l’uomo che la getta nella polvere. La scenografia, un vasto ufficio di commissariato fiocamente illuminato con scrivania, un paio di sedie, pile di faldoni in fondo, “è buio come al limitare d’un bosco”, informa il romanzo originale. Una finestra da cui entra il giallo sporco d’un lampione s’apre sulla linea ferroviaria. “Ma dove andate? Dove andate?” urla il commissario ai treni che passano con gran rumore come i giorni degli uomini trascorrono nel frastuono, è la vita che se ne va portando con sé la malinconia di chi conosce i racconti di Dino Buzzati e gli atri delle stazioni, dai francesi chiamati sale dei passi perduti.
Il caso è chiuso da molto tempo, riaprirlo diventa una complicazione, “cosa c’entra la verità con la giustizia?”, domanda retoricamente il poliziotto. Forse buttando dal balcone dell’undicesimo piano quel marito che la immergeva nella violenza, nelle botte, nelle angherie, la donna ha salvato se stessa e i figli. “La giustizia e l’amministrazione della giustizia sono due cose molto diverse”.
“Ora abbiamo ventuno minuti per riaprire il caso”, osserva l’assassina guardando l’orologio. Ma la signora è moralmente innocente, non tutti sono colpevoli e Gabriele Lavia, il quale si è adattato a propria misura il romanzo, oscilla nella sua prova d’attore in questo thriller filosofico fra la vitalità d’un uomo che sta combattendo una battaglia di giustizia e la stanca amarezza di chi ormai giudica vana la lotta per la verità. E a volte persino disumana.
L’arte di Lavia sembra dispiegarsi nel paradosso d’essere fondata su una tecnica chiara, evidente allo spettatore epperò di generare una prova fluida, apparentemente priva di struttura, di carpenteria della recitazione. Non si sente tensione nel suo stare in scena né rigidità, possiede un mestiere, una destrezza, una pratica irraggiungibili ma li vela con l’urgenza poetica. Ha qualcosa da dire, subito, ora, sotto un orologio. Non è semplice per la coprotagonista Federica Di Martino stare di fronte a un attore di tale caratura. In lei l’ossatura della recitazione si vede di più. I toni, i movimenti sono giusti, non vi è da pignoleggiare nei suoi riguardi, ma ancora dà la sensazione di costruire, di strutturare che è il contrario dello scorrere, di voler governare fermamente il personaggio quando anche in arte il comando è la scienza di far fare all’altro ciò che vuoi tu senza che nessuno se ne accorga, nemmeno l’altro che deve credere di fare ciò che egli stesso vuole.
In scena anche Enrico Torzillo, poche battute ma ben dette, poche occasioni ma sfruttate. Scene di Alessandro Camera e luci di Giuseppe Filipponio i quali costruiscono un’ambientazione ottimale per ciò che Lavia ha da dire e mostrare.

Marcantonio Lucidi,
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