“Slot”, scritto e diretto da Luca De Bei, con Paola Quattrini, Paola Barale e Mauro Conte. Al teatro Manzoni di Roma

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In scena uno più due non fa tre

Per certi versi Slot, in scena al Manzoni di Roma, è uno strano testo. I dialoghi sembrano scritti da due persone che hanno mano diversa e non si conoscono. Invece è tutto di Luca De Bei, nel bene e nel male. Anche le due protagoniste sembrano recitare in spettacoli diversi. Paola Quattrini è un’interprete con una storia artistica, una tecnica e una capacità di gioco teatrali rimarchevoli; Paola Barale è piuttosto monocorde, dice le battute sempre con lo stesso tono di voce e per quanto faccia ginnastica sul palcoscenico, risulta statica, a dimostrazione che il movimento in scena non è affare sportivo ma artistico. La differenza fra le due attrici è anche colpa o merito (a seconda se il punto di vista è dal lato dell’una o dell’altra) di De Bei. Alla Quattrini va una parte piena di battute divertenti, ironiche, persino folli e surreali che lei sa perfettamente come arricchire di ritmo, di gesti, movimenti, intonazioni, smorfie, persino di birignao calcolati su base comica che sono invenzioni da femmina gatta. Il suo personaggio è una signora della migliore borghesia, viziata, superficiale, fuori del mondo, una che sgrana gli occhi dallo stupore all’idea di prendere l’autobus, mezzo di locomozione adatto alle cameriere. Ucciderebbe l’ex marito – andato via di casa con una donna più giovane – non senza indossare per la bisogna un delizioso cappottino Chanel rosso di modo che un eventuale schizzo di sangue non sembri una macchia. Paola Barale è, ovviamente, l’altra e il suo ruolo è assai sacrificato in sede di scrittura, le battute a lei riservate non hanno nulla della verve, dell’umorismo che la Quattrini può dispiegare. Sono anodine, non caratterizzano il personaggio e non ironizzano nemmeno su una sua eventuale mancanza di personalità. Anche l’ipotesi dell’oca giuliva sembra esclusa, la Barale di suo ha chiaramente una personalità. La persona schiaccia il personaggio, fatto teatralmente controproducente e risolvibile solo mediante un gran mestiere e una parte scritta con brillantezza. Invece le battute cadono e non si può chiedere all’attrice di tirarle su e renderle vitali, lei può offrire altre qualità: possiede un fascino e una presenza scenica generati non dalla sola avvenenza ma da una gran simpatia e da un volto e un sorriso dolci.
Succede quindi che il primo atto dei tre è divertentissimo, quasi interamente affidato alla Quattrini in un duetto con l’unico personaggio maschile, il figlio, interpretato da Mauro Conte, buona spalla al servizio del “brillante”, come si sarebbe detto nelle vecchie compagnie all’italiana se la Quattrini fosse stata un uomo. Anzi, più che spalla, Conte sarebbe un generico primario, l’antagonista, necessario a dare sviluppo alla trama ma antipaticuccio, spesso un vecchio gentiluomo dignitoso e contegnoso, corretto e grave, un barbogio trasformato qui in un professore di scuola sui trent’anni avanzati o quaranta arretrati e pedante, conformista e borghesotto. La madre, si scopre piano piano, non è una spendacciona come s’usa dalle parti delle signore bene in cachemire, ingioiellate, infoulardate, imborsettate ma è succuba di un vizio costoso che il titolo dello spettacolo, Slot, consente di rivelare: la ludopatia. Si mangia tutto alle slot machine, al gratta e vinci e lotterie varie. Nel frattempo, l’altra s’accorge che rubare il maschio non è stato un grande affare e la telefonata allo spettatore è presto fatta, la commedia avverte in anticipo che le due donne finiranno per solidarizzare. A mano a mano che si avanza, l’autore (anche regista) molla la comicità così efficace del primo atto per inoltrarsi in una commedia di situazione. Non poteva fare altrimenti, perché non è facile andare avanti per tre atti solo a colpi di battute, prima o poi bisogna che succeda qualcosa, che vi sia un’azione. Succede qualcosa in effetti e sta di nuovo sulle spalle della Quattrini, capace di giocare, come dire, in punta di commedia anche se l’evento avrebbe connotazione tragica. Però c’è un prezzo da pagare, ossia che il tema della ludopatia, dipendenza seria, drammatica, viene spicciato come una tavola a fine pranzo e messo nella lavapiatti del pretesto. Alla favola manca la morale e i dialoghi deboli degli altri due personaggi, il figlio e la rivale, non permettono di sostituirla con l’immoralità della comicità che quando è buona è sempre cattiva. È un testo a tre personaggi che cammina su uno. Questo è il difetto delle commedie dai dialoghi zoppi.

Marcantonio Lucidi,
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