“La pianessa”, testi di Alberto Savinio, con Lucia Poli e con Marco Solastra al pianoforte. Al teatro Quirino di Roma
Un soffio d’anima surreale
Succede da qualche parte nell’universo che un pianoforte femmina, una pianessa, dia alla luce tanti figlioletti pianini che incominciano a suonare anche loro e invadono tutta la casa. Birboncelli, provocano gran trambusto e perfino si arrampicano sui muri – son giovani, vanno capiti – con gran piacere della padrona, amante assai della musica, la signorina Fufù. Così le signorine ammodo si chiamavano una volta, Fufù, Cocò, Bebé, Nené (Nanà, Kiki e Lulù erano più scabrose).
Succede di sicuro in un vasto universo come la mente di Alberto Savinio, pittore, scenografo, musicista, narratore, poeta, drammaturgo saggista, giornalista. E grande critico teatrale, per fortuna i suoi Palchetti romani non sono mai abbastanza letti, altrimenti ogni critico con un po’ di coscienza critica smetterebbe di fare il critico e farebbe il chierico (da qui il tradimento). Un artista totale, uomo rinascimentale capitato nel Ventesimo secolo perché non tutto nel Creato è logico, il tempo ogni tanto beccheggia e uno che starebbe a suo agio nell’Atene periclea di Socrate, Sofocle e Fidia finisce per vivere a Parigi fra gli avanguardisti del primo Novecento. Vi si trovò bene ma si sarebbe probabilmente trovato bene dappertutto e sempre altrove perché talmente fuori dal mondo da saper stare in ogni mondo. In una sua prefazione, pubblicata nella raccolta di racconti Tutta la vita, nella quale compare anche La pianessa, Savinio scrive che è stato lo stesso André Breton a sostenere che a capo del surrealismo c’erano lui, Alberto, e suo fratello Giorgio De Chirico. E poi specifica: “Il surrealismo per quanto io vedo e per quanto so, è la rappresentazione dell’informe, ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l’espressione dell’incosciente, ossia di quello che la coscienza ancora non ha organizzato”. Ma per carità, difatti il surrealismo saviniano è tutto il contrario, lo spiega lui stesso che “non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente”. Così stanno le cose dalle parti di Savinio e non ci si può fare niente, inutile ribellarsi e cercare altre definizioni o accampare scuse. Si può solo essere d’accordo con lui quand’egli scrive che il suo surrealismo cela una volontà formativa e una specie di apostolico fine. Insomma, il surrealismo è un pensiero metafisico che segna il tempo anche quando l’orologio è fuso. Segnare il tempo è un’attività altamente formativa perché addestra l’uomo alla propria inammissibile transitorietà, ossia alla realtà. Il surrealismo è il reale che prende coscienza di se stesso dopo un’infanzia dada passata davanti a un orinatoio rovesciato.
È Lucia Poli a raccontare sul palco del Quirino di Roma l’avventura della signorina Fufù che ha comprato la pianessa incinta dei pianini per il suo appartamento nuovo. Per cos’altro sennò? Tutto sommato l’anagramma delle prime tre note, do re mi, è “dimore”. Si comprano pianoforti per casa, non case per pianoforti, come probabilmente pensa la pianessa. Quanto a suonare, è ufficio d’un pianista, Marco Scolastra, che accompagna la Poli con musiche di Savinio naturalmente, e di Rossini, Mozart, Satie, Cage, del polacco Ignacy Jan Paderewski al quale è dedicata la storia del Pianista bianco: un fantasma al pianoforte che suona il Notturno in si bemolle maggiore di Chopin. La Signora Poli – Signora da scrivere con la “s” maiuscola tanto essa è dama di onore e devozione del teatro – racconta anche di un Vecchio pianoforte molto suscettibile che viene regalato a una ragazzina della quale non sopporta la mediocrità musicale. Allora si mette a suonare per conto suo e si scalda e s’infervora e s’agita fino a buttarsi dalla finestra e morire fracassato. In mezzo ai tre racconti per pianoforte, s’infila una breve biografia di Isadora Duncan, la grande danzatrice americana, che respinse Strindberg ma amò il regista teatrale Gordon Craig, l’industriale delle macchine da cucire Paris Eugene Singer, il poeta russo Sergey Esenin. È raccolta in Narrate, uomini, la vostra storia, questa vita della Duncan che morì strangolata dalla sua lunga sciarpa impigliata nei raggi della ruota posteriore di una Bugatti. Basta all’attrice una sciarpa bianca a dare il segno e il resto è tutto Lucia Poli così asciutta e precisa, al contempo generosa, fastosa nella sua interpretazione. Cammina sui giochi narrativi di Savinio con i tacchi dell’ironia, donna sottile, lunga, affilata. Sola in scena, accompagnata da un soffio d’anima del Novecento. Commovente.