“La tovaglia di Trilussa” di e con Ariele Vincenti coautore assieme a Manfredi Rutelli. Consulenza registica di Nicola Pistoia. Al Vittoria di Roma
Una poesia per il conto dell’osteria
La tovaglia di Trilussa si potrebbe definire uno spettacolo “diecon”, in questo caso “di e con” Ariele Vincenti autore – assieme a Manfredi Rutelli – e attore solista (in scena al Vittoria di Roma). A mitigare il diecon, il me lo scrivo, me lo dirigo, me lo interpreto da solo però purtroppo il lucista lo devo prendere, sono l’oggettiva capacità teatrale di Vincenti più la consulenza registica, ossia il terz’occhio, di Nicola Pistoia.
Si parla di Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871 – 1950), in arte Trilussa, e di poesia, dialetto romanesco, osterie, vino, donne, tante donne, debiti, tanti debiti, cravattari, fascisti, troppi fascisti. Si rievoca la città di D’Annunzio e Pirandello che non erano capitolini mentre Trilussa era nato quirite fermo come il bianco dei Castelli a via del Babuino 114 ma da madre sarta bolognese e padre cameriere originario di Albano Laziale. A Roma, nessuno o quasi è romano dalla testa ai piedi, però lo diventano tutti almeno nella testa. Roma caput monda.
La grande triade di Trilussa è costituita dalla poesia, dal vino e dalle femmine. Nel 1889, ancora diciassettenne, pubblica sul Rugantino, famoso giornale satirico dialettale, le Stelle de Roma, venti componimenti ciascuno dei quali dedicato a una bella donna romana. Incomincia qui la sua popolarità, però i soliti conservatori, i fanatici del Belli, lo accusano di usare un romanesco spurio, affogato nell’italiano, insomma sostengono che dentro al vino ci ha messo l’acqua. Ed è vero, il poeta vive pienamente il suo tempo e scrive nell’italo-romanesco parlato all’epoca dal piccolo ceto medio ministeriale post-unitario. Si sente subito ad ascoltare i versi di Trilussa recitati da Vincenti, il quale costruisce lo spettacolo intrecciando due fili: le poesie messe nello spettacolo non come siparietti da declamare a mo’ di bollo finale dei vari passaggi in prosa ma come parti iscritte nel filo narrativo e necessarie al racconto e agli aneddoti biografici; e la storia immaginaria di Remo, custode dello zoo di Roma, luogo frequentato dal poeta, che dal sommo viene invitato un giorno all’osteria. Ora c’è quello che serve all’attore, il pretesto, la storia, un grande protagonista, l’ambientazione fascinosa della Roma fra fine Ottocento e metà Novecento, la città di Giggi Zanazzo, di Cesare Pascarella e del geniale beffeggiatore d’uomini Ettore Petrolini, antifascista, antiborghese, anticonformista, antitutto.
Il pericolo di simili spettacoli è l’effetto vecchi tempi: eh, signora mia, non ci sono più le osterie di una volta, né i teatri di varietà e i caffè – concerto, nemmanco le signorine del rinomato casino di via Capo le Case. Vincenti riesce invece a dare l’effetto memoria, che è un’altra cosa: è storia – l’Italietta fascista, la politica, il potere, la guerra; ed è vita – la gioventù, l’amore, l’arte, la libertà poi la vecchiaia, i debiti, la solitudine. Trilussa pagava il conto della cena in trattoria con dei versi scritti sulla tovaglia di carta. Con un endecasillabo si mangia. Non c’è nostalgia nell’attore in scena, la sua è energia più buona tecnica di show-man. Nulla di meno. Questo è uno spettacolo che funziona non solo per le platee serali ma è molto giusto anche per il pubblico delle scuole, spesso costretto a sorbirsi rappresentazioni non adatte, lente, noiose. Vincenti è un artista della scena che sa come si tengono desti gli spettatori, anche gli adolescenti facili a spazientirsi. Musiche dal vivo di Pino Cangialosi.