“Cuore, sostantivo maschile” di Angela Di Maso, con Alvia Reale anche regista e Daniela Giovanetti. Al teatro Basilica di Roma
Anima, sostantivo femminile
Cuore, sostantivo maschile è stato scritto da Angela Di Maso su commissione delle attrici Alvia Reale (anche regista) e Daniela Giovanetti le quali, pare di capire dalla presentazione dello spettacolo, desideravano raccontare alcune storie, anche autobiografiche. Invece di buttarle giù di persona, hanno preferito affidarle a una drammaturga. A ciascuno il suo mestiere. Così le due interpreti si sono ritrovate un copione organizzato per quadri da portare in scena al teatro Basilica di Roma. Il filo unitario non è tanto una narrazione unica – anzi, i vari capitoli sono da questo punto di vista slegati fra loro – ma una successione di constatazioni femminili sul mondo.
Ora, quello che è interessante qui non è il testo, che ad ascoltarlo freddamente appare di poca sostanza drammaturgica, ma quanto Reale e Giovanetti riescono a cavarne in scena. Al di là d’ogni disquisizione sulla tecnica di scrittura teatrale, il punto importante d’ogni spettacolo è molto semplicemente che funzioni. E questo aspetto, il funzionamento, assai diverso dal gusto, non ha nulla di oggettivo, è soggettivo, però quasi sempre condiviso dalla gran parte degli spettatori.
Alvia Reale è un’interprete brava, nota per la sua intensità drammatica, che qui si lascia scoprire attrice comica con una gran vena sarcastica; Daniela Giovanetti si diverte a stare in scena assieme a lei, ha ritmo, esprime una sorta di candore surreale, l’effetto comico è determinato da un suo modo leggero di dire cose forti. Per esempio, racconta di una giovane ballerina che si frattura così gravemente da non poter più danzare, diventa attrice, supera un provino per uno spettacolo, e si innamora del regista: “Dicono che lavoro perché sono la sua donna. È la verità”. È il modo di portare la battuta che caratterizza l’attrice, come un’ovvietà, svuotandola di qualunque moralismo, toh, è la verità.
Reale invece ha un senso del teatro e un umorismo che le permettono di recitare e dirigere con un’aggressività non aggressiva, astratta, e con delicata ferocia. Si vede fin dall’inizio. Quando entra in scena ad inizio spettacolo, imbraccia a mo’ di mitraglia una rumorosa motosega e parte in un monologo sulla malasorte delle attrici, sull’infamia del mestiere, contro i critici, i registi, i produttori, contro l’ambiente professionale che letteralmente butta fuori una donna quando resta incinta. Nel copione ci sono elementi per fallire: gli artisti della scena che in scena si lamentano di quanto è disgraziato il loro lavoro, il teatro utilizzato per lagnarsi o per burlarsi dei teatranti sono clichés inventati quasi certamente prima di Eschilo (come la crisi del teatro, nata prima del teatro). Poi ci sono le parolacce, una discreta quantità, che in genere sono l’espediente a cui ricorrere quando non si riesce a fare ridere. Eppure, con l’idea della motosega, il monologhetto assume un tono, uno swing, una coloritura di gioioso e perfido sarcasmo. Il teatro può essere un niente che funziona, un ago dentro il vuoto.
I quadri, che non sono propriamente degli sketches perché non hanno un meccanismo da varietà, piuttosto sono dei microdrammi, si susseguono alternando le due attrici: il funerale della madre, la ricerca del padre. E poi arriva il sesso che è come il sol d’estate e la neve d’inverno. Qui i monologhi diventano scene a due perché per l’erotismo è meglio essere più d’uno: i desideri saffici, i sogni orgiastici, un po’ di violenza, il laccio, le frustate, la catena. L’umorismo femminile, diversamente da quello maschile, possiede sovente il senso della gogna più che della morte o della ridicolaggine umana, l’idea che la vita è una gabbia di obblighi, costrizioni, impedimenti, un collare di ferro di reclusioni, claustrofobie, isolamenti. Un umorismo che ride della prigione per parlare di libertà. Allora gli esseri più liberi sono gli animali, un cane e un gatto randagi che dialogano, buffi e ironici, e sono nella vita il cane di Alvia Reale e il gatto di Daniela Giovanetti. E il felino rimprovera al miglior amico dell’uomo di essere troppo asservito all’uomo.