“Una casa di pazzi” di Roberto D’Alessandro anche interprete assieme ad Enzo Casertano. Regia di Silvio Giordani. Al Manzoni di Roma

Una casa di pazzi 2

Più pazzi i savi dei matti

Una casa di pazzi sembra all’inizio una commedia buona per una rassegna estiva di teatro comico, di quegli spettacoli che si vanno a vedere la sera dopo il gelato sulla piazza d’una cittadina da spiaggia come Terracina. Si ride soprattutto nel primo atto di battute a volte un po’ grosse (però non volgari) che un autore come Roberto D’Alessandro, anche in scena, ha sulla punta della penna, per senso dell’umorismo e grazie alla sua lunga frequentazione del teatro d’evasione e del cabaret con il gruppo dei Picari.
Però lo spettacolo va avanti e ci si accorge che si tratta d’una finta commedia e che D’Alessandro ha osservato una vecchia legge dello spettacolo: nella rischiosa ipotesi si voglia mischiare il comico e il tragico, bisogna stare attenti a fare ridere al primo atto per fare piangere al secondo, mai il contrario: non si tira su facilmente un pubblico con la lacrima che potrebbe pure risentirsi della risalita. Ridere è piacevolissimo ma la soddisfazione di piangere per un dolore che non si prova è impagabile.
Lo spettacolo si presenta come un piccolo studio, quarant’anni dopo la legga Basaglia, la famosa 180, su cosa significa avere il pazzo in casa, come suggerisce il titolo. Ovviamente la regola comica vuole che, secondo il rovesciamento dei ruoli, più matti del matto siano i sani. Gran parte del gioco sta qua perché non si può dire che lo spettacolo offra un’indagine approfondita della patologia psichiatrica. Interpretato dallo stesso D’Alessandro, Remigio è un dissennato sui generis, dice e fa cose buffonesche, s’attarda in siparietti e scenette assieme al coprotagonista, Enzo Casertano nel ruolo del fratello Attanasio. Si tratta di comicità all’italiana, costruita su una battuta fatta cadere nel contesto di un’azione praticamente ferma o che avanza pochissimo. Il primo atto tecnicamente funziona così. Il secondo invece, quando si va verso il tragico, contiene l’esplosione inaspettata della situazione bloccata fino all’intervallo per le ragioni della comicità. Ecco che gli altri due ruoli, femminili, la moglie di Attanasio Maria Alberta, la quale del matto non ne può più fin dalla prima scena, e la vicina di casa Gina innamorata del maschio savio, rompono lo schema dei due fratelli, chiuso e autonomo, con lo scoppio dei problemi classici dei dementi sani di mente; i soldi, il matrimonio, l’amore. Si può uscirne pazzi ma dell’epilogo non si può dire se non nascondendolo dietro una citazione di Cechov: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”. Regola fondamentale anche dell’arte teatrale.
La regia è di Silvio Giordani, devota all’arte degli attori. Gigioneggia un po’ D’Alessandro nella parte del pazzo ma è giustificabile, non si può pretendere da uno spirito comico che butti la battuta sulle proprie ginocchia. Casertano che fa il fratello savio e il marito di Maria Alberta è un attore di mestiere, vien da dire di garanzia. Non fa errori, non esagera, sa stare nel registro comico come nel drammatico, è un bravo caratterista ma non manca in psicologia del personaggio.
Maria Cristina Gionta deve dare peso drammatico alla vicenda e carica la moglie di quell’eccitabilità e del nervosismo che ci si aspetta da una bionda (secondo il luogo comune della bionda nevrastenica). L’esatto contrario deve fare Maria Lauria impegnata nel secondo ruolo femminile della vicina di casa: sdrammatizzare, alleggerire, frivoleggiare.
Di Basaglia praticamente non v’è ombra e le luci di scena sono da curare però non si sta al buio, la commedia ha la sua brillantezza.

Marcantonio Lucidi,
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