“Enrico IV” di Luigi Pirandello, regia di Antonio Calenda, con Roberto Herlitzka. Al teatro Basilica di Roma
Il re è sul trono
L’Enrico IV di Pirandello allestito al teatro Basilica di Roma è l’occasione per tentare di cogliere ciò che fa di Roberto Herlitzka un artista speciale, unico.
Per cominciare, Herlitzka possiede una fisicità che corrisponde perfettamente al suo stile di recitazione e alla sua maniera di stare in scena. Abita un corpo scarno, essenziale, sottile; il volto lungo, emaciato, poco italiano e dai tratti forestieri ricorda in un certo modo Samuel Beckett ma con un’impronta più dolce e languida. Qualcosa di molto ironico e distaccato, però senza crudeltà, scintilla sempre nei suoi occhi. Muove sovente in aria una mano, la sinistra, gesticola ma mai inutilmente, non è né parsimonioso né scialacquone nel gesto, agisce sempre con il senso del necessario; la destra è occupata a tenere la stampella perché Herlitzka non è più un ragazzo e subisce qualche difficoltà di deambulazione. Però anche questo bastone di metallo ha funzione teatrale, e umoristica perché l’attore sa esattamente quando sbatterne con tempo comico la punta sul legno della ribalta. S’è calzato di scarpe dal tacco rumoroso ed Enrico IV diventa vieppiù un vecchio pazzo rompiscatole autoritario e perfettamente lucido. Quel tacchettare petulante è linguaggio e dice che il personaggio non sta perso nel mondo della follia ma fermo nella realtà. Tutto per Herlitzka è teatro.
Gli hanno messo il microfono ad archetto, chissà perché, e quando fa la sua prima apparizione in scena, la differenza con la voce non amplificata degli altri attori è disturbante. Per giunta quel marchingegno raccoglie e scaraventa nelle casse anche suoni vari d’ambiente, poi si sgancia e sbatacchia. A un certo momento glielo spengono, per fortuna, ed Herlitzka è perfetto, fluido, morbido d’eloquio, fa quello che vuole con la voce, la possiede completamente: indurisce i toni, li addolcisce, velocizza, rallenta, pausa, lunga pausa, quasi troppo, un attimo prima del troppo riparte, lento se vuole, soave, o secco, sprezzante, sarcastico. È un domatore di suoni, classico e del tutto originale. La tecnica è costruita con la sapienza di chi domina il verso e la metrica, quindi doma la prosa. Ma questa sua scienza vocale non si sente, non si nota mai, è una meccanica celata dietro il bello, una struttura invisibile che sostiene tutto, uno scheletro ricoperto di poesia.
Il movimento segue, appoggia, precisa e non necessita di grandi gesti, è una posizione del braccio, un’apertura del palmo della mano, un indice puntato. Non c’è molto di più e ogni cosa sembra casuale, naturale (mai naturalistica). In lui c’è sempre forma e nessun formalismo perché la sua arte parte da un’educazione estetica lontanissima dall’etichetta cosmetica e va verso l’atto poetico dell’interpretare. Cammina un po’ curvo e lentamente, ma l’impressione resta sempre quella di sveltezza e snellezza: Herlitzka occulta il tempo mondano con il tempo del teatro, tutto diverso nel suo scorrere non dal passato al futuro ma dall’attimo all’infinito. E nell’attimo in cui scorre l’infinito Herlitzka mette lo spettatore. Un attore straordinario.
Il resto dello spettacolo è il dramma di Pirandello che racconta la storia di un signore che dopo una caduta da cavallo si crede per dodici anni l’imperatore Enrico IV di Franconia, poi rinsavisce ma fa finta di rimanere pazzo e dopo vent’anni dice di essere guarito ma decide di continuare a fingere la pazzia. Il testo non ha importanza, un interprete di questo calibro può fare qualunque cosa. Il resto è una regia di Antonio Calenda che punta tutto sulla prova di Herlitzka senza produrre idee ma contentandosi di organizzare i movimenti in scena degli altri attori. Il resto è una compagnia che sarebbe lapalissiano descrivere come non all’altezza del protagonista. Il problema non è l’altezza, il problema è la profondità.