“Le braci” di Sándor Márai, regia di Laura Angiulli, con Renato Carpentieri e Stefano Jotti. Al Piccolo Eliseo
Su e giù per un tradimento
Le braci dello scrittore di lingua ungherese Sándor Márai (1900 – 1989), titolo originale non avvincente Le candele bruciano fino in fondo, è un romanzo oggi di gran fama ma quando fu pubblicato in Ungheria nel 1942 e in Germania nel 1950 non ebbe molto successo.
Nell’edizione del 1987, il dizionario Bompiani degli autori e delle opere di tutti i tempi e di tutte le letterature in sedici volumi dedica all’autore quasi una colonna biobibliografica ma non menziona Le braci. Il romanzo viene però ripubblicato in ungherese nel 1990 e in Francia nel 1995 dall’editore Albin Michel che lo rilancia favorendone una riscoperta spettacolare in tutto il mondo (la traduzione italiana arriva nel 1998). Si sono in seguito realizzati adattamenti cinematografici, operistici e teatrali del testo di Márai, fra i quali l’allestimento attualmente in scena al Piccolo Eliseo di Roma con Renato Carpentieri che interpreta il generale Henrik e Stefano Jotti che fa Konrad, diretti da Laura Angiulli anche autrice della drammaturgia su adattamento di Fulvio Calise.
Questo successo d’un titolo per mezzo secolo considerato minore e ora giudicato tanto interessante (al punto che su Wikipedia se ne trova una lunga, articolata e dotta analisi d’un estensore particolarmente affascinato) avrà le sue ragioni che stanno nel nostro tempo. Se Márai non fosse uno scrittore sofisticato della miglior tradizione letteraria mitteleuropea, la sua sarebbe solo una storia di corna, tema narrativo sul quale erano più ferrati un Feydeau o la nostra Liala. Liala peraltro, soprattutto nei primi romanzi, calava le sue trame in ambienti militari. Ne Le braci, il generale Henrik in pensione riceve nel suo castello ai piedi dei Carpazi un amico che non vede da quarant’anni. L’azione si svolge nel 1940. Dall’inizio del secolo nell’Europa centrale è successo di tutto, in particolare la caduta di un impero, di un mondo, di una civiltà, d’un modo d’essere. L’Austria-Ungheria. Il generale è vedovo d’una moglie, Krisztina, che lo tradiva proprio con Konrad, il grande amico d’infanzia, adolescenza, gioventù, fratelli invero “come gemelli nell’utero materno”. Konrad è tornato dopo decine d’anni passati ai Tropici. Fu una fuga a seguito d’un episodio di caccia, un giorno d’estate del 1899, quando Konrad trovò esattamente sulla linea di tiro fra il suo fucile e il cervo la sagoma di Henrik. Fece scattare lo stesso il cane dell’arma, la alzò all’altezza della schiena dell’amico, il quale sentì, capì, non si voltò, aspettò la pallottola che non partì.
Ora che i due vecchi amici si rivedono, tutto è morto. Morta Krisztina, morto l’impero, quel mondo “per cui valeva la pena di vivere e morire” è scomparso, la Storia ha tradito gli uomini. “Tutto ciò su cui giurammo fedeltà non esiste più”, dice il vecchio soldato. I tradimenti sono due, quello personale di un amico e l’altro, secolare, di una civiltà. Qui sta forse la ragione del successo che il romanzo di Márai riscosse negli anni Novanta, a cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione e subito dopo un altro crollo novecentesco d’un impero centrale ch’era chiamato Patto di Varsavia e si trovava oltre la cortina di ferro. La fine di un’ideale, di un’idea del mondo è sempre un tradimento.
Seppur scritto molto bene, e la versione teatrale capace di mantenere alto il livello della parola, il romanzo nella sua forma scenica presenta un forte rischio di retorica. L’evocazione del bel tempo andato – quando ancora esistevano le stagioni, la gente era educata, le regole venivano rispettate signora mia, e gli uomini cedevano il passo alle donne – è sempre pericolosa. Sono caduti nella trappola anche autori molto bravi, il grande scrittore austriaco Stefan Zweig per esempio con la sua autobiografia nostalgica Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, terminato di scrivere nel 1941, l’anno precedente al proprio suicidio e all’uscita de Le braci. Sándor Márai invece decise di spararsi un colpo di pistola alla tempia nel febbraio del 1989 e per pochi mesi non vide il crollo del Muro di Berlino. Il suicidio, che vorrebbe essere un epico azzeramento, finisce per diventare un’esagerazione retorica.
Lo spettacolo sfugge alla mesta ridondanza del rimpianto, all’elegiaca malinconia passatista, grazie soprattutto a Renato Carpentieri nel ruolo del generale. Interpretato da un simile attore, di voce importante ma di gesto scarno, contenuto però energico, il personaggio esce dalla tragedia di un tramonto per entrare nella tragedia sempre universale di un essere umano, che poi è una delle due sole grandezze concesse agli uomini, l’altra essendo naturalmente la risata. Più fiacca la prova di Stefano Jotti: l’interprete è meno forte del personaggio e si lascia comandare dalla pesantezza del carattere di uomo qualunque di Konrad, un po’ pavido, un po’ mediocre. È la difficoltà di interpretare un uomo banale in modo non banale.
Giusti i costumi di non si sa chi perché la locandina non ne fa menzione: Carpentieri è vestito con un tight grigio, abito formale, adatto al ricevimento di un ospite importante, ma diurno e significa che il generale sta nella sua dimora e non ha necessità di cambiarsi. Jotti invece porta uno smoking, abito vietato prima del calar del sole, a indicare che Konrad è uscito per passare la serata fuori casa. Non sono dettagli ed invece precisano le diverse posizioni interiori dei personaggi. La regista, la quale buon lavoro ha compiuto in sede di drammaturgia, quando poi deve dirigere non trova altre soluzioni sceniche per dare movimento allo spettacolo che chiedere allo scenografo Rosario Squillace un interno con molte sedie, poltrone, poltroncine e obbligare i suoi attori a sedersi ed alzarsi, risedersi e rialzarsi, ora qua ora lì, uno in piedi e l’altro assiso poi cambio turno. Una regia su e giù, una direzione per ascensori.