“La grande magia” di Eduardo De Filippo, regia di Lluís Pasqual, con Nando Paone e Claudio Di Palma. Al teatro Argentina di Roma
Eduardo così è (se mi pare)
All’Eduardo de La grande magia, scritta nel 1948, il regista spagnolo Lluís Pasqual mette la giacca di Pirandello. Lo conferma in una nota: “È un Eduardo particolarmente vicino a Pirandello quello della Grande magia”. Opinione legittima e suffragata da esegeti eduardiani, anche perché in effetti la storia di un marito ingannato che preferisce credere a una finzione pur di non cedere alla realtà è una tematica oggettivamente pirandelliana. Però questa tematica stessa è un’illusione perché Eduardo attraverso di essa parla di una seconda finzione, o meglio della più grande delle illusioni, l’amore: “Si era stabilito un gelo, fra me e lei. Io non parlavo. Lei nemmeno. Non le facevo più un complimento, una tenerezza. Non riuscivamo più ad essere sinceri, semplici. Non eravamo più amanti”, dice Calogero Di Spelta nel terz’atto. E questa illusione, questa finzione seconda coperta dalla prima, è causata da un ciarlatano, Otto Marvuglia, “prof. di scienze occulte, celebre illusionista, suggestione e trasmissione del pensiero”, come sta scritto nel copione.
Durante il suo spettacolo, Marvuglia fa sparire Marta Di Spelta, moglie di Calogero, la quale ne approfitta per scappare con l’amante. Tornata dal marito quattro anni dopo, si vede da questi rifiutata e disconosciuta; Calogero preferisce continuare a credere alla balla di Otto e cioè che la moglie sia nascosta in una scatola, piuttosto che d’ammettere d’avere le corna. Tutto ciò non è surreale ma è assurdo e s’è detto che La grande magia annuncia il “Teatro dell’Assurdo” di Ionesco. La commedia sarebbe quindi drammaturgicamente voltata in avanti piuttosto che indietro verso Pirandello. Il fatto è che il drammaturgo napoletano si mostra interessato soprattutto all’umanità dei suoi personaggi mentre il siciliano alla loro identità con tutta la filosoferia che se ne può tirare fuori. In Eduardo il teatro è una finzione che svela la verità mentre in Pirandello è una verità che svela la finzione. Questa può essere una delle ragioni per le quali alla fine i due non si sono presi anche se Eduardo a un certo momento rimase affascinato da Pirandello: nel ‘35 scrissero insieme per quindici giorni nella casa romana di via Bosio del siciliano una commedia in tre atti intitolata L’abito nuovo. Poi però il napoletano esitò a portarla sulla scena perché la giudicava troppo aspra e la allestì solo nell’aprile del ’37, quattro mesi dopo la morte di Pirandello.
Tuttavia l’idea estetica di un regista ha un’importanza relativa, in fondo è affar suo, e può benissimo parteggiare per il pirandellismo della commedia o per il surrealismo e se proprio la volesse fare strana, potrebbe sostenere a piacimento ch’è dalla tana del brechtismo che vuol trarre il modo della messinscena: il marito cornuto sarebbe il popolo, la femmina fedifraga la ricchezza che finisce sempre nelle mani del padrone e l’illusionista il sindacato che frega i più deboli. Non è un caso che Brecht è stato portato in Italia da Giorgio Strehler, il regista che ha allestito l’edizione forse più bella de La grande magia. Al di là dello spettacolo inteso come intrattenimento, ciò che più conta di una regia è se il progetto estetico e poetico viene poi coerentemente perseguito dalla messinscena. L’allestimento di Lluis Pasqual vive a tratti di quella lentezza subito riconoscibile nelle rappresentazioni pirandelliane. Ha un andazzo un po’ laborioso e pensoso che, luci a parte, ci si sarebbe potuti aspettare da un Luigi Squarzina regista di un Come prima, meglio di prima, storia di una donna molto libertina creduta morta dalla figlia e spacciata dal marito come seconda moglie. Ora, se nel corso di una rappresentazione il pensiero va ad altri allestimenti e non a ciò che sta avvenendo in scena, il problema sta nello spettacolo o nello spettatore. Ma siccome il pubblico è come gli infanti, senza colpe, vien da pensare che il lavoro di Pasqual, ben fatto, corretto, di mestiere sicuro e preciso, le cose funzionano, gli attori si muovono bene, giusti i costumi, giusta la scenografia, giuste le luci, ma insomma vien da pensare che la rappresentazione manchi di fascino. Il fascino è come il coraggio, uno non se lo può dare. Il fascino è la rugiada del coraggio. Non si sente la magia del titolo. Al suo posto, perché il regista non è uno sprovveduto e probabilmente percepisce che manca qualcosa, alcuni infarcimenti di cose farsesche o grottesche, per esempio la caricatura sicula del brigadiere, un’esagerazione irritante che il regista chiede all’interprete Francesco Procopio. Epperò alla carrettella d’uscita di Procopio, il pubblico schiamazza dal ridere come se stesse al varietà, quindi la ragione è dalla parte del regista e dell’artista in scena.
Man mano che si procede, invece dell’ammaliamento atteso da un metteur en scène come Pasqual, viene la cosa peggiore e più ingiusta, la nostalgia per l’allestimento di Strehler. E siccome la cattiveria è piacevole solo quando esercitata con consapevolezza, altrimenti se indotta conduce al senso di colpa, ci si attarda sugli attori: molto bravi, ben centrati nei personaggi i due interpreti principali Nando Paone (nel ruolo di Otto Marvuglia) e Claudio Di Palma (Calogero di Spelta), Angela De Matteo è assai giusta, che vuol dire credibile e tecnica, nel ruolo breve ma centrale di Marta. Puntuali direbbero i vecchi critici gli altri interpreti, ad esempio Gino De Luca (il cameriere) e Giampiero Schiano (Gennarino), non perché arrivano in orario ma perché offrono un disegno preciso, meticoloso dei personaggi. E questo è anche merito di Pasqual. In scena, oltre ai già citati, Alessandra Borgia, Gennaro Di Colandrea, Luca Iervolino, Ivana Maione, Antonella Romano, Luciano Saltarelli.