“Il cielo sopra il letto – Skylight” di David Hare, con Luca Barbareschi anche regista e Lucrezia Lante della Rovere. All’Eliseo di Roma
Il naturalismo preso per la coda
Bisogna guardare il gioco delle gambe e dei piedi per avere un’idea di quale tipo di attore sia Luca Barbareschi: quando entra in scena e deve manifestare un’aria imbarazzata e timida, sposta continuamente il peso da una gamba all’altra in modo da dare al corpo un’oscillazione che suggerisca uno stato di scarso equilibrio e di precarietà. Muove i piedi a piccoli rapidi passi per comunicare un senso di insicurezza. Sta lì ma deve dare l’impressione di sentirsi un intruso e d’essere pronto ad andare via da un istante all’altro. Il gioco dell’attore è efficace poi però il personaggio incomincia ad evolvere, il testo dice che la sua posizione interiore sta cambiando eppure Barbareschi continua a proporre quel lavoro di piedi e gambe finendo fuori tempo. Si vede che se ne soddisfa, lo trova teatrale e non a torto. Però se fosse un pilota di macchine da corsa, si direbbe che alla curva è andato lungo. La recitazione naturalistica che lui adotta richiederebbe che sia l’attore a seguire il personaggio e non il contrario (come nel modo all’italiana). Ma Barbareschi vuole al contempo essere naturalistico e asservire il personaggio alle sue esibizioni interpretative. È un attore che sa fare gli effetti però li ama un po’ troppo e a volte ne viene tradito. Gigioneggia? Non esattamente, piuttosto vien da dire che barbareggia nel senso che ha fretta d’essere veloce e a volte per rubare il tempo lo perde, questo tempo, e manca ciò a cui tiene, l’effetto appunto. Festina lente, dicevano i latini, affrettati lentamente tanto lo spettacolo dura due ore e mezza intervallo compreso e i minuti guadagnati in scena, basta che il bar lavori bene e sono subito persi.
In scena all’Eliseo di Roma con regia dello stesso Barbareschi, Il cielo sopra il letto, titolo originale Skylight, di David Hare è un testo inconsapevolmente maschilista. È la storia di un uomo e una donna che sono stati amanti tre anni prima, poi lei lo ha mollato e lui nel frattempo è diventato vedovo. Gran parte del dialogo è affidato al maschio, a momenti è un maschioloquio. L’attrice per tre quarti dello spettacolo deve solo porgere la battuta al collega. A lui vanno i passaggi più divertenti, alla signora uno scatto isterico sul finale del primo tempo. Lei deve cucinare, l’uomo non fa nulla però la sbeffeggia come cuoca. Quanto a parità di genere, si sta più o meno al livello della réclame di un detersivo presentato da una massaia di Catanzaro. Ecco servito chi pensa che nel rapporto uomo-donna il mondo anglosassone sia più avanti: la commedia di Hare è del 1995, non proprio gli anni di Penelope a casa a tessere la tela. La donna è sostanzialmente una spalla alla quale vengono concessi alcuni momenti interessanti, lui è il mattatore che va, viene, fa, dice, ridice e contraddice. Per Barbareschi è una situazione ideale. Per l’attrice invece, Lucrezia Lante della Rovere, le cose sono assai più complicate: non può conquistare spazio perché il dialogo non glielo permette più di tanto, deve stare lunghi momenti zitta ad ascoltare continuando comunque a tenere il personaggio ma senza fare le faccette, che è roba subito stucchevole, e neppure la bella statuina. Se la cava egregiamente e non commette l’errore di sparare la battuta per far vedere che c’è quando finalmente arriva il turno suo. Si intuisce una concordia fra il regista-attore e l’attrice, s’intravvede un lavoro in sede di prove che permette a Lante della Rovere di recitare con calma, senza smanie competitive ma al servizio dello spettacolo, nella consapevolezza di ciò che dice, aiutata da una presenza fisica e da una distinzione indiscutibili malgrado sia vestita poveramente, ai limiti della sciatteria.
Il meccanismo drammaturgico di Hare è semplice da individuare: l’unione, anzi lo scontro, degli opposti. Saverio è un imprenditore pieno di soldi al comando di una catena di ristorazione, bada al profitto, possiede la villa e l’autista, è una canaglietta di successo, crede che la logica (la sua in particolare) sia l’unica chiave di interpretazione del mondo. il luogo comune lo cataloga come maschio di destra. Elisabetta invece è una donna di sinistra, fa l’insegnante in una scuola di periferia, si impegna nel recupero di alunni in difficoltà, ama i libri, vive in un appartamentucolo d’un quartiere popolare. Lui era sposato, lei era l’amante che poi lo mollò a suo tempo, fatto molto comprensibile perché la sopportazione di un soggetto come Saverio, egocentrico, logorroico, nevrotico e prepotente, è possibile solo se l’attrazione per il lusso è più forte della propria libertà. Hare è un drammaturgo molto bravo che sa dare un vigore e una sostenibilità teatrali anche a proposizioni banali, battute deboli e passaggi bolsi. Però questa commedia è una cosa all’americana, anche se l’autore è inglese, adattata e tradotta dallo stesso Barbareschi in un italiano che sovente trova nella parola “cazzo” una specie di percussione verbale atta ai cambi di ritmo. La regia è corretta e coerente nel senso che sottolinea la centralità, anche scenica, del ruolo maschile e in nome di un’efficacia spettacolare si disinteressa d’ogni eventuale contraddizione, ad esempio l’uso (un paio di volte) di luci d’effetto, emozionali, e d’una recitazione mattatorale (mattatorica? Forse è più indicato mattatoriosa) in un contesto che si vorrebbe naturalistico. Anche questo è teatro però, spettacolo di gagliarda comunicativa. Infatti due applausi a scena aperta per Barbareschi e molti per tutti alla fine dello spettacolo, anche per Paolo Marconi che fa il figlio di Saverio e ha due scene, la prima e l’ultima, assieme a Lucrezia Lante della Rovere, da lui ben sostenute seppure con un sospetto di barbareschismo, stile che pertiene solo a Barbareschi.