“Se questo è un uomo” da Primo Levi, uno spettacolo di e con Valter Malosti. Al teatro Argentina di Roma
Alcuni modi di avanzare nel fango del dolore
La lettura di Se questo è un uomo può diventare a mano a mano che si avanza, che si avanza nel fango del dolore, un fatto estremamente personale. Vero e giusto che Valter Malosti, regista e interprete della messinscena (e adattatore assieme a Domenico Scarpa), tiri fuori dal testo una serie di registri narrativi ricchi, complessi, vari ma è anche possibile sentire in Primo Levi, così nitido e stringato, un grande silenzio. Il silenzio di chi osserva il campo di concentramento nazista con la stessa pacatezza d’un signore che si trovasse a guardare un fioraio al lavoro. Recidere i gambi, eliminare i fiori marciti, mescolare la cenere con il terriccio.
Lo spettacolo, allestito al teatro Argentina, non è silenzio ed anzi alla prova monologante di Malosti aggiunge molta musica che ne fa quasi un’opera acustica e s’avvale, come è scritto in locandina, del “progetto sonoro” di Gup Alcaro, le musiche di molti (Bach, Beethoven, Schubert, Morton Feldman, Arvo Pärt, fra gli altri, e brani klezmer) e di tre madrigali originali di Carlo Boccadoro dalle poesie di Levi scritte fra il ‘45 e il ’46. Ora siccome quest’anno ricorre il centenario della nascita dell’autore, è inevitabile pensare a una ragione commemorativa come impulso dell’allestimento. Tuttavia sono proprio la presenza non ignorabile della partitura sonora e l’energia della prova vocale di Malosti, la sua imperiosità, che fanno pensare a qualcosa di meno scontato d’un atto celebrativo. E così come il silenzio è una impressione molto intima nella lettura del libro, anche in questo caso si è chiamati a un sentimento personale. È il sentimento dell’urgenza. Malosti ha premura, forse persino prescia, di dire qualcosa. Che si senta chiara.
L’Italia ha dimostrato, se ce ne fosse bisogno, di essere un paese a forte connotazione razzista e antisemita, né più né meno come il Nord Europa, come una qualsiasi Polonia, come nelle zone vandeane e reazionarie francesi, come nella Svizzera dei caffè e dei ristoranti vietati ai cani e agli italiani. Tutti i giorni, le cronache rendicontano di insulti a neri ed ebrei, di atti xenofobi, di dichiarazioni discriminatorie e subumane, di omissioni malvagie e mistificazioni gaglioffe, da parte dei politici di una destra che definire fascista rende in un certo qual modo storicamente concepibile e ripresentabile nel contesto di una proposta ideologica, politica, sociale reazionaria (è successo e il mondo non è finito, può succedere ancora, che ci vuoi fare mio caro benpensante). Invece è una destra anale, è la manifestazione di una grave deiezione della nostra società. Il razzismo e l’antisemitismo del fascismo si poggiavano, fra le altre cose, sul complesso di inferiorità che gli italiani provavano nei confronti degli altri popoli occidentali. La conseguente erezione fallica del petto mussoliniano è stata una pagliacciata dalle conseguenze drammatiche: in storia una farsa può produrre una tragedia.
Levi scrive quando tutto è avvenuto, la sua è testimonianza, la sobrietà e la chiarezza della prosa di Se questo è un uomo esaltano la verità, la semplice verità della tragedia che è stata. Malosti invece va in scena durante gli accadimenti, il suo è un allarme su quanto sta succedendo ora, conseguenza non del complesso d’inferiorità ma al contrario della boria, una boria immotivata e gonfia di paura. Ancora una volta, una pericolosa pagliacciata italiana. Ma si sa: sic transit boria mundi. Nel frattempo, l’attore e regista trova in Levi una parola sempre attuale, perché storica, da rendere contemporanea attraverso una performance dell’urgenza. Altrimenti non sarebbe un allarme, al più un consiglio. Quindi non è solo un monologo sul testo di Primo Levi, nel qual caso si sarebbe potuto ricordare a Malosti che una solitaria lettura a casa è quasi certamente più efficace, ma è uno spettacolo su ciò che siamo adesso, su di noi lebbrosi.
Dire che Malosti è bravo è una banalità e la banalità è sovente offensiva. Si può però rilevare una scelta di regia abbastanza sottile: in un ambiente scenico spoglio, di luci studiate per allargare le ombre, l’attore si presenta vestito in modo molto formale, camicia bianca, giacca e cravatta scuri come il cappotto di buon taglio. La valigia che ha con sé non abbisogna di spiegazioni. Questo abito severo, questa presenza fisica spartanamente elegante è Levi; la voce invece, ricca di tonalità, variabile e spettacolosa, dai multipli registri, è Malosti. Questo è un bel modo d’essere ciò che si è, un artista impetuoso, e al contempo di considerare la natura sobria dell’altro, Primo Levi. Lo spettacolo dura un’ora e quaranta. Il teatro può eccedere in durezza ma non in durata.