“Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman, regia di Andrei Konchalovsky, con Federico Vanni e Julia Vysotskaya. All’Eliseo di Roma
Il naturalismo della cucina russa
Andrei Konchalovsky ha allestito all’Eliseo Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, una produzione del Teatro stabile di Napoli e Fondazione Campania dei festival – Napoli Teatro festival. Questa non è un’opera, è un’operazione basata su un regista di lustro internazionale, in grado con il suo nome di raccogliere un consenso automatico e di incutere un minimo di soggezione. Insomma Konchalovsky è una stella e “le stelle sono tante, milioni di milioni, la stella di Negroni vuol dire qualità”. Lo slogan del salumificio è proprio dello stesso periodo nel quale questo adattamento teatrale del titolo bergmaniano è stato trasposto, chissà perché, gli anni Sessanta a Roma, più precisamente ai Parioli, una volta quartiere alto della Capitale, oggi molto abitato da salumai arricchiti, camorristi, truffatori e squillo di successo. Lo spettacolo è di una noia e di una inutilità squillanti.
Il regista ha affidato il ruolo femminile alla propria moglie, la quale si chiama Julia Aleksandrovna Vysotskaya, attrice dura e legnosa al punto che su di lei si potrebbe fare ironia facile. Però ridere sulla prova della signora non sarebbe giusto, andare in scena è pur sempre uno sforzo, e non si può sostenere che il forte accento russo sull’italiano, una motosega su un lampadario in vetro di Murano, la aiuti. Interessante però questa torsione cosmopolita da teatro aeroportuale: un’opera svedese, artificialmente ambientata a Roma, prodotta dai napoletani e recitata in italiano da una russa. Tuttavia sono cose comprensibili: la vita domestica con un’attrice può portare a confondere l’oggetto d’interesse, il teatro, con il soggetto, la moglie. C’è da considerare il fatto che ad occuparsi di cose d’arte, il tempo restante per altre attività è poco e che insomma “qui se ressemble s’assemble”, dicono i francesi (in italiano “Dio li fa e poi li accoppia”), si finisce per guardarsi intorno, ossia vicino, dove le persone con cui conversare della propria passione si manifestano con maggior frequenza. È così che i bancari si innamorano delle bancarie, gli scrittori delle scrittrici, i registi sposano le attrici, i capitani d’industria le segretarie e i commercianti di calzature le carmelitane scalze. Soprattutto quando si vuol fare Scene da un matrimonio ch’è tutta una bergmaniana riflessione sulla coppia e le sue crisi, si sta particolarmente attenti alla pace del proprio ménage familiare e se la moglie vuole il ruolo, ebbene che l’abbia, perché, si sa, l’uomo dà una cosa, la donna un’altra, da cosa nasce cosa, i comuni interessi, la dolcezza del non lasciarsi mai, insieme a provare lo spettacolo, insieme anche a casa dopo le prove, magari in prova in casa.
Lo spettacolo verrà come verrà, non importa se il regista ha avuto in carriera poco a che fare con il palcoscenico e visibilmente crede che il teatro sia un’arte delle entrate e delle uscite, una bizzarra forma di cinematografia senza esterni, e che basti mettere un ventilatore in quinta a muovere la tenda di una finestra per fare del naturalismo. Pazienza anche se la scenografia di Marta Crisolini Malatesta – un salotto con angolo cottura – è triste come un bed and breakfast a Pomezia; se i video con scene della televisione italiana degli anni Sessanta sono inutili e indicano una sfiducia nelle capacità evocative della scena; se l’altro protagonista, Federico Vanni, buon attore, non è credibile nella parte del marito perché la coppia attorale formata con la Vysotskaya semplicemente non funziona, è male assortita nel modo di recitare, nella presenza scenica, nello stile naturalistico che lui sostiene con agio e abilità e che lei interpreta con le maniere spicce d’una cuciniera slava che inzeppa i pirozki. Dal 2003 la moglie di Konchalovsky scrive libri di cucina e tiene un paio di programmi televisivi in cui prepara del cibo intitolati “Facciamo da mangiare a casa” e “Prima colazione con Julia Vysotskaya”. La gastronomia non è un’attività teatrale però è assai indicata per il dopo teatro.